Donald Trump sta giocando una complicata partita a scacchi in 4D o è tornato sui suoi passi per correggere un errore madornale? È un raffinato stratega o un cialtrone senza criteri? È il grande artista del deal che la sua portavoce racconta o un narcisista umorale che oggi va in una direzione, domani in quella opposta e dopodomani chissà? La ricostruzione delle 18 ore in cui il presidente degli Stati Uniti è passato dai dazi generalizzati come veicolo permanente di entrate fiscali alla moratoria di 90 giorni concessa ai paesi che in ginocchio hanno chiesto un negoziato è l’attività che impegna in queste ore tutti gli osservatori mondiali. La risposta al dilemma dipende da chi la racconta.

Gli investitori trumpiani che lo hanno rimproverato per i dazi ora lo portano in trionfo come astutissimo negoziatore, i protezionisti della scuola di Peter Navarro – il consigliere più ascoltato fino a ieri – dicono che è capitolato, ha ceduto alla pressione dei mercati e si è spaventato, mostrando così tutta la fragilità delle sue posizioni.

Ma i mercati intanto soffrono ancora, perché oggi la Casa Bianca ha chiarito che i dazi alla Cina sono complessivamente al 145 per cento: il calcolo del presidente non teneva conto del 20 per cento imposto per via del traffico di fentanyl.

I repubblicani al Senato spiegano che sono stati loro a fargli cambiare idea. Negli incontri decisivi che hanno portato alla formulazione del post su Truth che ha certificato il cambio di linea erano nella stanza soltanto il segretario del Tesoro, Scott Bessent – su cui erano circolate ipotesi di dimissioni qualche giorno fa, ora si capisce perché – e altri consiglieri critici verso la politica dei dazi. Elon Musk esulta in modo composto, Bill Ackman – punto di riferimento trumpiano a Wall Street – esulta invece in modo sbracato, sollevato dal vedere un barlume di razionalità dopo una settimana di blackout della ragione. Si dice che i tassi di interesse sui buoni del Tesoro siano stati il fattore che gli ha fatto cambiare idea. Così pensa la ex segretaria del Tesoro, Janet Yellen, che ha descritto la politica economica di Trump come «la peggiore ferita autoinflitta di qualunque amministrazione».

Gli avversari democratici evocano la possibilità che sia stata solo una colossale manovra speculativa sulle oscillazioni dei mercati (tanto da chiedere un’indagine del Congresso), cosa che comunque metterebbe il presidente nella colonna degli astuti e non in quella degli sprovveduti. Altri consiglieri dell’amministrazione, però, hanno scoperto della decisione dai media, e perfino l’apparato della comunicazione pare abbia appreso la cosa quando ormai era fatta.

Karoline Leavitt, la combattiva portavoce, si è presentata nel giardino delle Rose con una versione dell’accaduto cucinata nel giro di pochi minuti. Il senso era questo: «Chiaramente non siete riusciti a vedere quello che il presidente Trump sta facendo. Avete cercato di dire che il resto del mondo si sarebbe mosso verso la Cina, quando in realtà abbiamo visto l’effetto opposto».

L’oracolo

Lui, Trump, dice come sempre tutto e il suo contrario. Al vertice di governo ha detto che «ci sarà un costo di transizione» per i dazi, ma ha assicurato che «alla fine, andrà tutto bene», esultando per una giornata storica dei mercati. Ha spiegato che la decisione è arrivata dopo che ha visto investitori molto, troppo preoccupati – i famosi “panican” che fino al giorno prima insultava per la loro debolezza – e poi in un momento che forse si avvicina alla sincerità ha pronunciato questa frase: «Molte volte non è un negoziato fino al momento in cui lo diventa. Questo succede».

Sentenza oracolare, eppure chiarissima. A volte le cose nascono in un modo e finiscono in un altro, un nuovo scopo – o un nuovo umore – rimpiazza quello originario, trasformando una presa di posizione in una tattica negoziale, secondo una logica di imprevedibilità che sfugge a tutti quelli che lo circondano. E il punto è esattamente questo: tutti, anche i consiglieri più stretti, devono avere il dubbio e domandarsi “ma fa sul serio oppure è un bluff?”. Quando poi la decisione viene presa, ciascuno la razionalizza a posteriori cercando di trarne la morale che gli fa comodo.

La “madman theory

Questa dinamica imperscrutabile e paranoica può essere descritta come una versione della “madman theory”, il metodo di spacciarsi per pazzi che nell’America contemporanea è associato a Richard Nixon, il disgraziato presidente che ha molte cose in comune con Trump. Una volta Nixon ha enunciato la teoria al suo capo di gabinetto H.R. Haldeman, l’uomo che con il consigliere John Ehrlichman formava il cosiddetto “Muro di Berlino” a protezione del presidente. «Voglio che i vietnamiti del nord credano che io abbia raggiunto il punto in cui sono capace di tutto pur di fermare la guerra. Gli faremo arrivare il messaggio che “per Dio, lo sai che Nixon è ossessionato con il comunismo, non riusciamo a contenerlo quando è arrabbiato, e ha le mani sul pulsante nucleare”. Ho Chi Minh in persona sarà a Parigi nel giro di due giorni a implorare la pace».

La teoria del pazzo impone appunto di far credere agli avversari di non essere attori razionali, ma di avere l’ardire di fare qualunque cosa sulla base di istinti e volubilità imprevedibili, incluso danneggiare i propri interessi. Per funzionare, gli avversari devono credere che il pazzo sia veramente pazzo, non che stia recitando strategicamente una parte secondo uno scopo preciso.

E per funzionare ancora meglio – ecco il tocco trumpiano – anche alleati e consiglieri devono crederci, devono provare un vero moto di paura quando il presidente sceglie una strada che è loro sgradita, e quelli che invece esultano per le decisioni prese possono trovarsi, nel giro di 18 ore, dalla parte sbagliata del processo decisionale, senza nemmeno essere stati informati. In fondo, la domanda se dietro a Trump ci sia acume strategico o follia non ha senso.

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