C’è un ennesimo caso che coinvolge Donald Trump e la sua effettiva candidabilità alle elezioni presidenziali del 2024: stavolta è toccato alla Segretaria di Stato del Maine Shenna Bellows prendere la decisione di escludere d’imperio Donald Trump dalle primarie repubblicane nello Stato.

Inutile soffermarsi in questa sede sulle consuete reazioni, che includono la rabbia dei repubblicani che parlano di sentenza politica e dei dem che invece puntano il dito sulle pesanti responsabilità dell’ex presidente per quanto riguarda l’assalto a Capitol Hill nella giornata del 6 gennaio 2021.

Intanto perché, quasi certamente, a dire una parola definitiva su questo e altri casi simili al momento discussi nelle corti statali americane, sarà un verdetto della Corte Suprema. E si può affermare con ragionevole certezza che la prudenza del giudice capo John Roberts, conservatore moderato nominato da George W. Bush nel 2005, porterà a non escludere l’ex inquilino della Casa Bianca in assenza di una sentenza di condanna.

Questo punto fermo però verrà messo solo tra molti mesi, dato che notoriamente i tempi dell’alto tribunale richiedono qualche mese. E la difesa del tycoon non ha fretta, anzi.

I nodi da sciogliere

Chi ha fretta invece è il Congresso: con il 2024 si ripresenterà ancora una volta una situazione spaccata tra i partiti, dove trovare per l’ennesima volta una quadra può essere molto difficile. La prima deadline, infatti, sarà il 19 gennaio. I negoziatori al momento non hanno nemmeno trovato una base per un accordo che riguardi i vari livelli di spesa, che includono la difesa, il welfare, la sanità e le infrastrutture.

Al ritorno dopo il Capodanno, quindi, ci saranno circa un paio di settimane lavorative per forgiare un patto omnibus, senza pensare al fatto che normalmente le tempistiche sulle leggi di spesa richiedono molte più settimane. Analizziamo quali sono i nodi da sciogliere a spron battuto prima che il governo federale americano non possa più spendere nei settori dell’agricoltura, della cura dei reduci di guerra e della spesa social.

Partiamo dal punto meno controverso, la spesa militare: normalmente i provvedimenti sul punto godono di un vasto consenso bipartisan, ma c’è una piccola discrepanza da risolvere. Buona parte dei senatori repubblicani accompagnati dal grosso del gruppo dem ritengono che le cifre stabilite dall’accordo tra Biden e McCarthy non siano più adeguate alla situazione attuale e chiedono che vengano aggiunti 8 miliardi extra attraverso una procedura di “emergenza”: un voto che aggiunga un finanziamento oltre alla spesa ordinaria.

A opporsi a un aumento, a sorpresa, non è l’ala progressista dei dem, bensì i conservatori repubblicani, che non vogliono innalzare il limite del debito per questo motivo, linea che tutto sommato si sposa bene con il neoisolazionismo di una corrente del trumpismo più radicale, una piccola pattuglia che però è stata capace di sfiduciare l’ex speaker Kevin McCarthy.

Alcuni retroscena rivelano che, qualora il successore Mike Johnson decida di trovare nuovi accordi bipartisan coi dem, potrebbe arrivare una nuova mozione di sfiducia, anche se rimane improbabile in un anno elettorale. C’è un altro punto del patto bipartisan di giugno nel mirino dei conservatori del Freedom Caucus: quei 69 miliardi extra con cui sostenere le spese di diversi dipartimenti federali stabiliti da un’intesa informale tra il presidente e l’ex speaker.

Secondo i radicali di destra, questi fondi andrebbero tagliati. Anche altri accordi laterali al testo principale del patto di giugno andrebbero rivisti, insomma, tanti piccoli problemi che rischiano soltanto di dare molto mal di testa ai negoziatori, che dovranno affrontare tutto questo a marce forzate.

I precedenti recenti, compreso quello che è costato il posto a McCarthy, ci dicono che alla fine, tendenzialmente, una quadra viene trovata e il governo federale americano può andare avanti senza patemi (ad esempio per discutere della spesa militare c’è qualche giorno in più di tempo, fino al 2 febbraio prossimo).

I dubbi

L’incognita però rimane il potere di Donald Trump sul partito repubblicano: per fermare le indagini del procuratore speciale Jack Smith l’ex presidente potrebbe anche dire ai membri del suo partito di bloccare i fondi al governo.

Non sarebbe nemmeno la prima volta che il tycoon ha usato lo shutdown per negoziare: lo ha fatto anche da presidente per cercare di forzare la mano ai dem e costringerli a finanziare il muro al confine con il Messico, causando 35 giorni di mancato pagamento di stipendio agli impiegati pubblici federali a cavallo tra il 2018 e il 2019.

E sarebbe peraltro in linea con le mosse fuori dagli schemi a cui The Donald ha abituato gli osservatori politici. E tutto questo, infine, sposterebbe ulteriormente in avanti la discussione sugli aiuti da fornire a Ucraina, Israele e Taiwan nel corso del 2024. Una situazione delicata che non può che avvantaggiare alcuni nemici giurati degli Stati Uniti.

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