Ieri Gaza, oggi Venezuela e Nigeria. Così Trump dimentica l’“America First”

Quel globalista di Donald Trump continua a prendere a picconate il suo presunto sovranismo “America First” occupandosi con grande impegno di vicende che accadono altrove, mentre dentro ai confini i suoi alleati nazionalisti danno segni di insofferenza. Dopo l’operazione di soccorso dell’Argentina di Javier Milei da 40 miliardi di dollari, la deputata Marjorie Taylor Greene, un tempo ubertrumpiana di fede inossidabile, ha detto che ormai lo slogan del presidente è “America Last”. I sondaggi negativi in vista delle elezioni di midterm del prossimo anno - lontane ma non troppo - risentono certamente della delusione di una parte della base. Non solo Venezuela, la politica delle cannoniere di Trump mira ai progressisti di Colombia e Messico Crisi globali Alle crisi globali che Trump si è trovato da gestire - su tutte Gaza e Ucraina - la Casa Bianca ne aggiunge di nuove, investendo risorse nella campagna contro i narcos venezuelani, che ha sempre più l’aria di un conflitto obliquo per far crollare il regime di Nicolas Maduro, o minacciando di intervenire in Nigeria per fermare il massacro di cristiani. E Trump ha parlato anche di non meglio specificati «altri paesi» in cui stragi simili stanno avvenendo, e lui non lo permetterà più. L’intervista a 60 Minutes, Cbs, registrata nella residenza di Mar-a-Lago, è stata una grande carrellata sullo scenario internazionale. Il presidente ha parlato di Venezuela, Cina e Medio Oriente, con la naturalezza di chi considera ogni crisi estera una questione domestica. Alla domanda sulla sorte di Maduro ha risposto che «i suoi giorni sono contati», pur precisando che «non credo andremo in guerra». Ha rivendicato la durezza dei dazi contro Pechino, si è attribuito il merito di aver ripristinato il rispetto nei rapporti con Xi Jinping e ha parlato di «amicizia e fermezza» verso Mosca, un equilibrio che nessuno dei suoi predecessori era riuscito a sostenere. È la fotografia di un presidente nazionalista a parole, ma nei fatti profondamente coinvolto nelle dinamiche globali. Trump ha fatto dell’isolazionismo il proprio marchio politico, ma il suo modo di esercitarlo è quello di un attore che continua a muoversi su tutti i palcoscenici del mondo con estrema disinvoltura. Anzi, la presenza di una dimensione affaristico-famigliare sotto quella strettamente politica ha proiettato l’amministrazione ancora di più verso l’esterno, con i figli impegnati a gestire una rete di criptoaffari dal Qatar a El Salvador. Cia, droga e non solo: perché Trump ha messo nel mirino il Venezuela di Maduro Il caso del Venezuela è emblematico. La Casa Bianca ha aumentato la presenza navale e le operazioni nel Mar dei Caraibi, ufficialmente per combattere il narcotraffico, di fatto per mantenere pressione politica su Caracas. Trump dice di voler difendere la libertà dei venezuelani, ma l’obiettivo è mostrare che l’America non si lascia più sfidare. «Non siamo i poliziotti del mondo», ha detto, «ma siamo i leader del mondo». Lo stesso schema si ripete altrove. In Africa, gli Stati Uniti stanno ampliando gli accordi agricoli e minerari con la Nigeria e rafforzando la cooperazione militare, in particolare nella regione del Sahel. È una politica che non nasce da solidarietà o visione globale, ma da una strategia di potere: contenere la Cina, tutelare le risorse, riaffermare la centralità americana. Anche in Medio Oriente la linea è ambigua. Trump alterna minacce e concessioni, sostiene Israele in modo incondizionato e allo stesso tempo corteggia i paesi arabi con una montagna di nuovi investimenti. È un approccio transazionale, fondato sull’idea che ogni rapporto estero debba produrre un guadagno tangibile. La nuova guerra alla droga: «Gli Usa pronti ad attaccare il Venezuela di Maduro» Sovranista a metà Da sempre Trump accusa i democratici e le élite internazionali di voler diluire l’identità americana in un progetto globalista. Ma la sua politica estera mostra che non al momento esiste una vera alternativa alla prospettiva, almeno per una potenza come gli Stati Uniti. Si può rinnegare il linguaggio delle alleanze, ma non il bisogno di esercitare influenza. Nella spinte su scenari come il Venezuela e la Nigeria si possono leggere segnali di tipo politico e culturale abbastanza intelligibili. Il regime socialista di Maduro solletica il sentimento anticomunista che la base repubblicana non ha mai abbandonato, e certamente il segretario di stato, Marco Rubio, la cui influenza è in ascesa, ha contribuito a dare rilevanza allo scenario. Portaerei ed esercitazioni: gli Usa si tengono pronti a colpire il Venezuela Anche le minacce sulla Nigeria si possono leggere come una dichiarazione di difesa dei cristiani contro l’islamismo radicale, trasformando quella vicenda in un caso emblematico in cui le guerre culturali si intersecano con la politica estera. Ma oltre alle convergenze del momento e alla logica di piccolo cabotaggio si affaccia anche un’ipotesi più profonda, cioè che gli Stati Uniti non possano, per ragioni per così dire “genetiche”, davvero liberarsi della loro proiezione globale. In un certo senso, la missione messianico-civilizzatrice è talmente impressa nell’origine del progetto americano che nemmeno il più isolazionista dei leader riesce davvero a rimanere nelle dimensione degli affari propri senza esondare, trasformandosi, anche contro il proprio volere dichiarato, in un leader universale. Da Trump a Meloni, la corruzione del linguaggio porta alla rottura del patto sociale Trump non esporta democrazia, ma interessi e affari, ed è perciò il portatore di un globalismo pragmatico, spogliato dalla retorica wilsoniana, dalle immagini evangeliche della città sulla collina e dalla responsabilità di proteggere degli internazionalisti liberal. Ma è pur sempre una forma di leadership globale. Ogni volta che promette di pensare solo all’America, finisce per intervenire altrove, violando i confini di cui parla continuamente. Anche la potenza nazionalista di Trump resta inevitabilmente intrecciata al destino del resto del pianeta.