Pensavamo che l’Ue dovesse morire presto, invece è l’Occidente a soccombere. In termini di nazionalismo americano, tycoon non fa che aggiornare (a modo suo) la politica del presidente del Watergate e di Ross Perot. A fronte di tutto ciò, l’Europa è fermata al 2005 con il no dei referendum francese e olandese
Pensavamo che l’Ue dovesse morire presto, invece è l’Occidente a soccombere. Il tycoon non fa che rinverdire (a modo suo) la politica di Nixon e Ross Perot
La morte dell’Europa e dell’Unione europea è stata annunciata molte volte, ma a rischiare di morire è l’Occidente. Per questo Giorgia Meloni cerca di farlo rivivere. I funerali di papa Francesco potranno essere un’opportunità per dibatterne con Donald Trump. Intanto l’Europa resta l’unica ancóra a cui attaccarsi. Certo ha ragione Massimo Cacciari: occorre partire dai suoi fallimenti e soprattutto dal fallimento di leader poco coraggiosi che non hanno fatto l’ultimo salto verso l’unione politica. Si sono stoppati prima, timorosi di scontentare il loro pubblico e inseguendo gli umori dei sondaggi, invece di comportarsi da leader indicando il passo successivo e forzando la mano alle loro società.
In sintesi, si può dire che l’Europa si è fermata al 2005 con il no dei referendum francese e olandese. La Convenzione fallì e con essa la costituzione europea assieme al sogno della cittadinanza europea. Si è tornati indietro e da allora conta solo ciò che si discute in consiglio europeo, una cacofonia di egoismi contrapposti che non fa arrossire le riunioni di condominio romane. Ma la storia conduce laddove non si vuole: osserviamo governi europei composti da maggioranze in passato antieuropee che ora si aggrappano all’Unione come ultima difesa.
Globalizzazione in crisi
L’Ue protegge i piccoli e medi paesi europei che da soli affonderebbero tra i marosi della crisi della globalizzazione e della guerra commerciale tra i giganti Usa e Cina (con la Russia a fare da terzo incomodo per recuperare la posizione dell’Urss: si tratta di una battaglia di retroguardia che fa male ma non ha possibilità di successo).
In tale contesto tumultuoso la premier Meloni dimostra audacia recandosi a Washington quasi senza rete (le decisioni di Donald Trump sono imprevedibili e mutevoli) e contando sulla relazione personale. Per ora incassa una missione di successo. Dimostrare coraggio politico conta, come Standard & Poors ha registrato mentre non l’aveva fatto nemmeno per un like-minded come Mario Draghi.
Ma cosa vuole davvero Trump? Isolare la Cina e recuperare manifattura lasciata andar fuori confine in questi 20-30 anni. Pensa così di dare respiro a quell’America di mezzo che vive di produzione (industriale e agricola) e di lavoro operaio. Secondo il politologo americano Michael Lindt (che ha scritto The Radical Center e si considera “estremista di centro”) non c’è nessuna novità reale: Trump aggiorna a modo suo la vecchia politica nazionalista di Richard Nixon e di Ross Perot, il candidato indipendente che spaccò i repubblicani e permise le vittorie di Bill Clinton nel 1992 e 1996.
Anche Nixon nel 1971 provocò uno shock simile a quello dei dazi, abolendo unilateralmente la convertibilità oro-dollaro e mettendo sussidiariamente dazi al 10 per cento per tutti. In quell’occasione Nixon accusò Europa e Giappone di lasciare agli Stati Uniti tutta la responsabilità della tenuta del sistema commerciale ed economico mondiale, approfittandone. E così il sistema di Bretton Woods del 1944 volò in pezzi. Lo stesso metodo nazionalista fu negli anni Novanta al cuore della campagna di Perot, uomo d’affari come Trump. Ostile agli accordi di libero scambio, Perot criticava europei e giapponesi, chiedendo loro di pagare per la difesa garantita dall’America. Malgrado il fatto che Clinton, Bush e Obama fossero (abbastanza) liberoscambisti, la politica nazionalista di Nixon e Perot è rimasta presente nell’establishment americano, influenzandolo con continue richieste di dazi che ogni presidente ha messo, anche Joe Biden. Secondo tale teoria – scrive Lindt - gli Usa fornisco tre beni pubblici al mondo: l’accesso al loro mercato interno (il più grande del mondo); l’ombrello nucleare che garantisce stabilità con la deterrenza; il dollaro come moneta di riserva globale. Queste tre garanzie si basano su un sistema aperto, che oggi chiamiamo globalizzazione.
Tuttavia negli Stati Uniti i perdenti di tale modello progressivamente si sono rafforzati opponendosi al mondialismo neoliberale. Trump li ha intercettati perché anche lui pensava da tempo allo stesso modo. Da quarant’anni almeno The Donald definisce gli alleati degli Usa come «parassiti» che sfruttano il mercato americano e si approfittano della difesa militare Usa. Lindt ha ritrovato un annuncio fatto pubblicare a pagamento sui maggiori giornali americani del 1987, in cui Trump scriveva: «Il mondo si prende gioco dei dirigenti americani che proteggono navi che non sono nostre, trasportando petrolio che non ci serve, destinato ad alleati che non alzerebbero un dito per aiutarci». La narrazione vittimistica è già tutta lì. Basta aggiungere Cina, il risultato non cambia. Solo che i tempi sono cambiati: l’intreccio tra economie e finanza è talmente stretto che gli Usa rischiano il boomerang, non prima però di aver portato tutto il sistema al collasso. Per questo le resistenze in America sono sempre più forti e frenano il tycoon.
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