La sconclusionata e preoccupante agenda globale di Donald Trump sta mettendo carburante nel motore degli oppositori. Il tour antitrumpiano di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, i volti della turbosinistra, ha raggiunto nuove vette nel fine settimana, quando sono sbarcati nella West Coast.

Sabato a Los Angeles si sono radunate al loro comizio, secondo gli organizzatori, 36mila persone, la folla più grande che i due sono mai stati in grado di mobilitare. Più tardi Sanders è comparso anche a sorpresa sul palco del Coachella, iconico festival musicale californiano, ospite della cantane Clairo, e ha ricevuto un’accoglienza da popstar globale.

«Dobbiamo combattere per la giustizia, per la giustizia economica, per la giustizia sociale e razziale», ha detto nel suo breve e infiammato discorso. Quando ha nominato Trump, la platea ha reagito con una bordata di “buuuu”. «Sono d’accordo», ha commentato sornione il senatore indipendente del Vermont.

Il tour “fight oligarchy” di Sanders e Ocasio-Cortez non sfonda i soltanto nelle roccaforti democratiche. Domenica hanno parlato davanti a 20mila persone a Salt Lake City, nello stato repubblicano dello Utah, e altre migliaia aspettavano fuori dal centro congressi.

«Non vogliamo un governo della classe dei miliardari per i miliardari. Vogliamo un governo che rappresenta tutti, non solo l’1 per cento», ha detto Sanders, che descrive quello che stiamo vivendo come «il momento più pericoloso della storia moderna di questo paese».

Verso il centro

L’idea che accende la folla non è una generica animosità verso Trump e le sue decisioni, ma la convinzione più precisa che questa disgrazia politica non sia una calamità accidentale, quanto l’esito di un lungo processo di disparità e ingiustizie. «Questo momento non arriva dal nulla», ha detto Ocasio-Cortez a Los Angeles, «la distruzione dei nostri diritti e della democrazia è direttamente legata alla estrema disuguaglianza che è cresciuta in America nel corso degli anni».

Per Sanders si tratta di un ritorno nella California dove era riuscito ad affermarsi alle primarie democratiche del 2020, vittoria allora soltanto simbolica che però aveva autorizzato i democratici a immaginare che il futuro sarebbe stato nella parte più radicale della sinistra. Poi le cose sono andate diversamente, e gli esponenti del movimento neosocialista si sono ritrovati a ripiegare per raccogliere idee ed energie in vista di una nuova sfida con l’establishment. Questa fase sembra indicare la direzione in cui guardare per essere nuovamente competitivi.

Ma se le cose fossero così semplici, la sinistra avrebbe trovato già da tempo il modo per contrastare efficacemente il nazionalpopulismo di Trump. Il tour della coppia riempie le piazze e trasmette entusiasmo, ma i pezzi importanti del partito stanno andando in una direzione diversa rispetto alla restaurazione progressista.

Il governatore della California, Gavin Newsom, sta teorizzando l’abbandono dell’agenda progressista per andare a caccia di elettori nel mondo Maga. Lui che anni fa ha lanciato, dietro la proposta-bandiera dell’assistenza sanitaria universale, un movimento di governatori e amministratori locali per dare una nuova marcia progressista al partito, ora ha abbandonato le battaglie per i diritti trans e la retorica woke per spostare la lotta verso il centro. Sulla stessa linea si sono mossi anche diversi sindaci di grandi città democratiche, dove le esigenze del pragmatismo prevalgono sulle pulsioni rivoluzionarie.

Barbara Lee, icona progressista che per decenni ha rappresentato il distretto di Oakland – città antagonista per eccellenza della California – affronta una campagna elettorale sorprendentemente difficile per il ruolo di sindaca, incalzata del democratico centrista Loren Taylor. Altre sfide elettorali in California vedono i centristi elettoralmente più forti rispetto alle previsioni, e del resto lo stato è il teatro della ingestibile convergenza fra valori progressisti e denaro dell’oligarchia tecnologica convertita al trumpismo.

Bukele alla Casa Bianca

Intanto, alla Casa Bianca il progetto di piegare la struttura della democrazia alle esigenze del presidente procede senza intoppi. Ieri Trump ha approfittato della sponda di Nayib Bukele – dittatore col sorriso che ha trasformato El Salvador in una distopia autoritaria fatta di criptovalute e incarcerazioni di massa – per rifiutarsi di rimpatriare Kilmar Armando Abrego Garcia, l’uomo deportato per errore a El Salvador che prima una corte federale e poi la Corte suprema all’unanimità ha ordinato di riportare negli Stati Uniti.

Davanti a un gongolante Trump, Bukele si è preso la responsabilità di rifiutare il rimpatrio, sollevando formalmente così Trump dall’accusa di ignorare il pronunciamento dei tribunali. «Sarebbe come far entrare un terrorista in America», ha detto Bukele, confermando che non restituirà né libererà un uomo che perfino la Casa Bianca ha ammesso è stato rimpatriato per errore.

A margine dell’incontro con Bukele, Trump ha fatto l’ormai classico sproloquio su tutto, dicendo – fra molte altre cose – che la guerra in Ucraina «non sarebbe mai dovuta iniziare». «Biden avrebbe potuto fermarla e Zelensky avrebbe dovuto fermarla e Putin non avrebbe mai dovuto avviarla. La colpa è di tutti», ha spiegato, per una volta inserendo Putin nel novero dei responsabili. Sui dazi, ha dato un saggio finale di logica trumpiana: «Non cambio idea, ma sono molto flessibile».

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