Martedì il tycoon chiederà al re di Giordania e all’Egitto di prendersi i gazawi: in pratica sono opzioni impossibili. Così non metterà fine alla guerra, non spegnerà l’incendio in Cisgiordania e alienerà gli alleati arabi agli Usa
Fondata all’inizio del Novecento dal surrealista Alfred Jarry la patafisica, o scienza delle soluzioni immaginarie, finora non aveva mai trovato un interprete audace quanto Donald Trump. Le soluzioni proposte a raffica dal presidente americano per Groenlandia, Canada, Panama e Gaza sono l’equivalente di invenzioni patafisiche quali l’ombrello con grondaia, il fucile con canna ondulata per mirare il canguro quando salta o lo zooablatore per tradurre i latrati del vostro cane. Oggetti di nessun uso pratico, ma mirabili nel mostrarci i limiti della logica.
Il progetto per Gaza è l’ombrello con grondaia che Trump tenterà di vendere al re di Giordania Abdallah, convocato martedì 11 febbraio a Washington. Ad Abdallah il presidente chiederà di accogliere alcune centinaia di migliaia di palestinesi, trattabili, da Gaza e magari dal West Bank. E di mettere a disposizione le truppe per la forza multinazionale essenzialmente araba cui Trump e Benjamin Netanyahu vorrebbero affidare la Striscia. Pensando agli indispensabili 1,4 miliardi di dollari di aiuti americani che rischia di perdere, Abdallah probabilmente tenterà di concedere il minimo indispensabile.
Per ingolosirlo Trump evocherà i vantaggi che otterrebbe la Giordania dal suo piano per un nuovo Medio Oriente. Che certo non consiste soltanto in quel che Trump chiama la Riviera di Gaza, anche se probabilmente prevede i casinò e gli alberghi dell’israelo-americana Myriam Adelson, devota a Netanyahu e presente all’insediamento di Trump (era proprio davanti a Meloni).
Ma proprio il quotidiano della Adelson, Israel Hayom, accenna a ben altre ambizioni, tali da spiegare perché Trump riservi agli Stati Uniti il ruolo di principale artefice: la Striscia verrebbe infatti inserita in nuova logistica mediorientale, in grado di raccordare con rotaie, tubi e strade le monarchie del Golfo al porti del Mediterraneo (Gaza, l’israeliana Haifa, l’egiziana Port Said). Sauditi ed emiratini sarebbero i finanziatori, americani i capiprogetto, palestinesi la manovalanza itinerante.
Condizioni necessarie
Quel che rende il progetto un oggetto patafisico è la condizione necessaria: la pace in Medio Oriente. Trump getta le basi per un conflitto permanente prospettando ai gazawi di trasferirsi altrove. Quanto al West Bank, il suo ambasciatore a Gerusalemme già lo chiama col nome biblico di Giudea e Samaria, gradito alla destra israeliana. Di sicuro è destinata a diventare Israele quasi tutta l’area che gli Accordi di Oslo definiscono ‘Area C’, ovvero il 61% del West Bank, la quasi totalità delle risorse idriche e tutti gli insediamenti legali dei 700mila coloni. Ma cosa ne sarà dei trecentomila abitanti e dei 500 villaggi palestinesi presenti in quello spazio?
Quanto al resto del West Bank, si tratta di capire fin dove si spinga la rapacità israeliana. Quasi tre milioni di palestinesi vivono in una dozzina di enclaves sparsi nelle zone denominate A e B, la prima governata dall’Autorità palestinese, la seconda sotto giurisdizione mista. Le strade che collegano le enclaves sono tutte controllate dall’esercito israeliano e da avamposti di coloni, in teoria illegali ma di fatto protetti dai soldati. Posti di blocco e avamposti sono disseminati strategicamente per evitare che le aree palestinesi abbiano continuità territoriale.
Le destre israeliane immaginano l’area riservata ai palestinesi come una somma di comunità tribali largamente autonome, dormitorio per operai e manovali, l’equivalente dei Bantustan sudafricani. In alternativa Trump potrebbe resuscitare il piano che offrì senza successo all’Autorità palestinese cinque anni fa: accordava ai palestinesi un microbico stato sovrano, purché senza unità territoriale e senza le prerogative ‘forti’ che fondano la statualità.
Uno stato non-stato, probabilmente neppure quello accettabile alla Knesset, che in larga maggioranza rifiuta l’idea di una sovranità palestinese. In alternativa, opinionisti israeliani suggeriscono di riunire le enclaves alla Giordania, come territorio confederato oppure annesso.
Re Abdallah è tra l’incudine (scontro con Israele, ritorsioni americane) e il martello (insurrezione palestinese in casa, cospirazioni dinastiche per togliergli il trono, rivolta dei Fratelli musulmani, il partito più potente della Giordania). Se aprisse le frontiere ai palestinesi espulsi dall’area C e quelli cacciati da Jenin e Tulkarem in questi giorni, Israele potrebbe sostenere che lo stato palestinese c’è già, ed è la Giordania. Se rifiutasse, Israele potrebbe sfondargli i confini con i tank e convogliare popolazione araba nei varchi, per scaraventarla oltrefrontiera. L’attacco obbligherebbe la Giordania, lo preannuncia il suo ministro degli Esteri, ad entrare in una guerra impari con le Forze armate più potenti dell’area.
Al Sisi nel vicolo cieco
Anche l’egiziano al Sisi parrebbe destinato a scegliere il male minore. Gli si chiede di accogliere e dare una casa a palestinesi in cambio dei copiosi incentivi ventilati in segreto da Israele già un anno fa (20mila dollari a famiglia). La fragilità dell’economia gli suggerirebbe di accettare. Ma se cedesse rischierebbe di essere travolto dalla piazza e da una congiura militare. Il regime è così spaventato che ha proibito agli studenti di portare al collo la kefiah palestinese. E per fingere resilienza ha schierato centinaia di tank al confine con Gaza, lì dove l’aviazione israeliana potrebbe ridurli facilmente a carcasse fumanti.
Il problema di arabi ed europei è che non dispongono di una soluzione alternativa da opporre all’ombrello con grondaia trumpiano, se non la “soluzione dei due stati entro i confini del 1967”, il mantra che ripetono da decenni senza crederci (o almeno senza credere a quella perimetrazione). Sono soprattutto i palestinesi che dovrebbero finalmente uscire dal loro stato stuporoso, prendere consapevolezza di quel che è stato il vilissimo pogrom di Hamas, affidarsi ad un leader presentabile (per esempio Mustafa Barghouti), sbaragliare i giochi israelo-americani con una proposta realistica.
E una volta messo all’angolo l’oltranzismo giudeofobico, magari rivendicare il diritto di scegliere loro stessi i partner (europei?) con i quali ricostruire la Striscia infischiandosene della prelazione che Trump intende esercitare (da chi diavolo l’ha avuta?). Ma i regimi arabi, e soprattutto i governi europei, sono disposti a rischiare lo scontro con l’Imperatore patafisico? Questo il problema che la codardia italiana ha riproposto.
Eppure Trump inciamperà nell’intoppo che non sa come risolvere: chi caccerà Hamas da Gaza? In 15 mesi di guerra Israele ha bruciato 67 miliardi di dollari e perso quasi 400 soldati per distruggere appena la metà dei tunnel di Hamas, tuttora forte di 20mila miliziani (forse 25-30mila un anno fa). Nessun Paese, neppure i soliti vassalli, si lascerà convincere a rischiare i suoi militari in una forza multinazionale che volesse prendere il controllo della Striscia senza il consenso dei palestinesi.
Per quanto abbia «normalizzato il discorso sulla pulizia etnica a Gaza, rivelando le aspirazioni di molti ebrei in Israele» (così il giornale Haaretz), deportando palestinesi riuscirà non porrà fine alla guerra, non garantirà la sicurezza alle imprese americane che operassero a Gaza, non spegnerà l’incendio nel West Bank. La ditta Donald & Bibi sta brevettando una nuova invenzione patafisica: il fucile che, dovunque miri, ti spara sui piedi.
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