Ieri il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato il nome della persona che, se confermata dal Senato, sostituirà alla Corte suprema Ruth Bader Ginsburg, l’icona progressista morta il 18 settembre all’età di 87 anni. La prescelta è Amy Coney Barrett, giudice della settima circoscrizione della Corte d’appello federale, della quale si è parlato soprattutto per la sua fede cattolica, per i suoi sette figli e per le posizioni conservatrici su aborto, matrimoni gay e altri temi infiammabili, che la collocano nel punto più lontano dello spettro ideologico rispetto a Ginsburg. 

Il consigliere occulto
Barrett è sempre stata la favorita: Trump l’ha incontrata nei giorni scorsi alla Casa Bianca, ma il suo nome circola da tempo. Quando un anno e mezzo fa il presidente ha scelto Brett Kavanaugh per sostituire il giudice Anthony Kennedy, che ha deciso di ritirarsi, Barrett era stata presa seriamente in considerazione nel processo di selezione, ma alla fine Trump aveva detto che voleva «tenerla per Ginsburg», secondo una ricostruzione fatta allora dalla testata online Axios. In questi casi si dice giustamente che tutto può cambiare un attimo prima dell’annuncio, e chissà cosa può succedere nella burrasca mentale in cui naviga un presidente che non è nemmeno pronto a promettere che si sarà una “transizione ordinata” del potere se Joe Biden vincerà le elezioni, ma sul fronte delle nomine giudiziarie Trump è invece stranamente lucido. Ha un progetto ben definito che ha perseguito dall’inizio del mandato con metodo e solerzia. Su qualunque dossier Trump si contraddice, pasticcia, si affida a consiglieri che esalta pubblicamente e poi licenzia con ferocia, di solito insultandoli su Twitter. Alla Casa Bianca c’è un turnover forsennato di volti e ruoli, chi subentra tendenzialmente s’adopera per disfare quello che era stato fatto prima, figure senza competenze specifiche si occupano di questioni delicatissime, il genero Jared Kushner, tanto per citare l’esempio più noto, spadroneggia dalla Silicon Valley agli Emirati Arabi. Ma sulla giustizia il presidente segue scrupolosamente la guida della Federalist Society, un’associazione di giuristi e accademici conservatori che dal 1982 fa un’intensa attività di lobbying sulla Casa Bianca e il Congresso per promuovere la nomina di giudici conservatori e libertari.

La rivoluzione nei tribunali
Dall’inizio degli anni Novanta soltanto un giudice della Corte suprema è stato nominato da presidenti repubblicani senza l’approvazione della Federalist Society: si trattava di Harriet Miers, figura troppo liberal per i maggiorenti del partito e che infatti è stata travolta da polemiche talmente feroci da indurla a ritirare la candidatura. La figura chiave dell’organizzazione è Leonard Leo, instancabile lobbista che è «largamente responsabile della nomina di un terzo dei giudici della Corte suprema», come ha scritto sul New Yorker l’analista giudiziario Jeffrey Toobin. E lo ha scritto prima che Trump nominasse Neil Gorsuch e Kavanaugh, entrambi consigliati da Leo, che è il responsabile de facto della stesura delle liste da cui il presidente attinge per scegliere.

Ma se le nomine della Corte suprema sono eventi rari, sovraesposti mediaticamente e iperpoliticizzati, quelle dei giudici federali nelle varie corti sono parte di un lavorio meno vistoso ma più rilevante dal punto di vista politico e culturale. Un giudice alla massima corte può spostare un po’ gli equlibri istituzionali, un esercito piazzato intelligentemente nei gangli del sistema può cambiare il volto del paese. È in quell’ambito che Leo si è dato più da fare, guidando un gigantesco processo di selezione e lottizzazione che il presidente si limita a controfirmare. Dall’inizio della presidenza Trump ha nominato 194 giudici, il 24 per cento del totale, più di quanti ne abbia scelti George W. Bush nei suoi due mandati. Barack Obama in otto anni ne ha scelti 312. Trump è stato il presidente che nella storia recente ha piazzato più giudici nelle corti d’appello, che producono sentenze che fanno scuola su aspetti fondamentali della vita del paese. Ne ha nominati 53, contro i 30 scelti da Barack Obama e i 35 del predecessore repubblicano. Ha nominato più donne rispetto ai precedenti presidenti conservatori, ma meno rispetto ai democratici, e l’85 per cento di questi sono bianchi. Ma soprattutto sono esaminati e istruiti dalla Federalist Society, l’unico organo a cui Trump ha accordato fiducia incondizionata.

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