America first: l’allineamento dei poteri e le sue prime parole fanno presagire che la seconda amministrazione Trump sarà ancora e lacerante per la democrazie statunitense di quella precedente. Ma gli ostacoli non mancheranno: a cominciare dall’incostituzionalità di molti dei suoi ordini esecutivi
Si è aperta la seconda era Trump. Le parole, in ultimo quelle pronunciate dal neo presidente nel suo discorso inaugurale, e le prime politiche – condensate in decine di ordini esecutivi – lasciano presagire che sarà più radicale e potenzialmente lacerante per la democrazia statunitense di quanto non fu la prima, quando il caos e il dilettantismo dell’amministrazione repubblicana agirono da freno degli impulsi autoritari e del sostanziale analfabetismo istituzionale di Trump.
Nelle settimane successive alla sua seconda vittoria elettorale, Donald Trump ha chiarito di considerarla una validazione delle sue posizioni più estreme, del suo rifiuto di accettare la sconfitta di quattro anni e di visioni cospirative che ne definiscono la retorica e la comunicazione politica. Una validazione che gli consegna oggi un contesto all’apparenza più favorevole al dispiegamento dei suoi progetti. Quella che si sta formando è un’amministrazione decisamente più coesa, omogenea e in ultimo “trumpiana” di quanto non fosse quella di otto anni fa. Non vi è più un establishment repubblicano capace di mettere Trump sotto tutela, come fu nel 2017. Il partito è stato ormai conquistato da Trump e dal suo movimento Maga.
Tutto il potere al Maga
Quest’amministrazione beneficerà, almeno nel suo primo mandato, di un allineamento di poteri, dove un governo unitario – con i repubblicani che controllano la presidenza e le due Camere – sarà completato da una Corte suprema con una chiara maggioranza conservatrice. Il tutto in un paese che sembra avere perso molti degli anticorpi di otto anni fa, con un’opinione pubblica esausta e assuefatta all’estremismo di Trump, incapace per il momento anche solo di mobilitarsi e protestare.
Maggioranza esile
Gli ostacoli per Trump non mancano, intendiamoci. La sconfitta elettorale dei democratici nel 2024 segue tre loro vittorie (i mid-term del 2018 e del 2022, e le presidenziali del 2020). In conseguenza delle quali sono oggi comunque più forti rispetto al 2017. Alla Camera dei rappresentanti, i repubblicani dispongono di una maggioranza esilissima – 218 a 215 per il momento (era 241 a 194 nel 2017) – e non a prova di litigi e divisioni. Su scala statale, i democratici controllano governatorati di Stati molto pesanti – California, New York, Pennsylvania, Michigan, Illinois – oltre a gran parte delle principali città; otto anni fa le camere statali con maggioranze repubblicane erano 67 su 99, oggi sono 56.
Molti giudici, più della metà del totale, infine sono stati nominati da Obama e Biden e offrono in una certa misura un contrappeso ai tanti che Trump ha designato tra il 2017 e il 2021 e designerà a partire da oggi.
E saranno proprio le corti a essere per prime sollecitate dall’azione di Trump. Molti di questi ordini esecutivi – a partire da quelli draconiani in materia d’immigrazione – pongono evidenti problemi di legalità e costituzionalità. In taluni casi sembrano farlo deliberatamente, con l’obiettivo ultimo di aprire una vertenza da trascinarsi fino alla Corte suprema amica (dove due dei giudici, però, John Roberts e Amy Coney Barret, hanno talora sorpreso sfilandosi dalla maggioranza conservatrice).
È chiaro però che è su quel terreno e ambito lì – il controllo delle frontiere, le azioni eclatanti di rastrellamento di immigrati presenti illegalmente sul territorio statunitense, la creazione di centri di prigionia temporanea, addirittura la fine dello jus soli codificato da uno dei più importanti emendamenti costituzionali (il XIV, ratificato nel 1868) – che Trump e i suoi hanno scelto d’investire un pesante capitale politico e simbolico.
Perché la richiesta di adottare misure forti raccoglie un consenso ampio e in parte bipartisan; perché paiono sostanziare quella promessa – così centrale nel discorso trumpiano – di ripristinare una sovranità dolosamente perduta, anche in virtù dell’incapacità di controllare e proteggere il proprio territorio; perché nella perenne dialettica che ha mosso la storia degli Stati Uniti tra il nazionalismo civico e costituzionale da un lato e quello essenzialista e razziale dall’altro l’equilibrio pare tornare a pendere verso il secondo.
Quello trumpiano è a tutti gli effetti una forma di “sovranismo”, per usare una categoria nuova (e spesso abusata) della politica. Radicale per i toni e, anche, perché a offrirlo è il paese che grazie alla sua impareggiabile dotazione di potenza preserva più di qualsiasi altro gli attributi (e tanti dei privilegi) di una sovranità incontestata.
Alla voce deregulation
Ma, come i primi ordini esecutivi ci mostrano, non è però l’immigrazione il solo ambito dove si cerca di dare corso alle promesse e agli impegni di questo sovranismo. L’altro è quello rappresentato dall’economia. Dove tale mitologica sovranità si recupererebbe liberando l’industria americana – quelle estrattiva e della big tech su tutti – dai lacci regolamentatori che si è cercato d’imporle; e dove sovranità, autonomia e finanche libertà si riconquisterebbero affrancandosi dalle interdipendenze delle supply chains globali, riportando produzione industriale nel paese e limitando influenza e potere di condizionalità della Cina.
A questo – oltre che a sanzionare attori, amici e non, che non sottostanno al disegno di Trump – devono quindi servire le misure commerciali punitive che Trump promette.
Deregulation (o “anti regulation”), dazi e tariffe delineano un quadro che colpisce anche noi italiani ed europei. E, da quanto stiamo vedendo, non sembra proprio che l’Ue e i governi dell’Europa siano preparati a questa sfida.
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