Nel suo tour mediorientale per unire l’utile degli affari di famiglia al dilettevole della geopolitica, Donald Trump ha incontrato in Arabia Saudita il presidente ad interim della Siria, Ahmed al Sharaa (al Jolani), l’ex leader del gruppo Hayat Tahrir al Sham, formalmente ancora incluso nella lista dei gruppi terroristici del governo americano. L’incontro storico è avvenuto il giorno dopo l’annuncio a sorpresa della fine delle sanzioni verso il regime, «che penso sarà davvero una buona cosa», ha detto Trump. È la prima volta in 25 anni che il presidente americano incontra un leader di Damasco.

Trump ha detto che è l’inizio di una «esplorazione della normalizzazione delle relazioni con la Siria» e ha anche parlato della possibilità di aprire al paese gli Accordi di Abramo, il progetto avviato durante il primo mandato e che fra gli obiettivi finali ha quello di indurre i governi del mondo arabo a riconoscere Israele.

Ha rivolto lo stesso invito anche all’Arabia Saudita e al principe ereditario Mohammed bin Salman – che gli ha riservato un’accoglienza in pompa magna con tappeti color lavanda e codazzi fiabeschi, mentre nell’ultima visita di Joe Biden aveva mandato all’aeroporto una dimessa delegazione di funzionari minori – ed è stato l’unico passaggio senza applausi in una visita altrimenti punteggiata da entusiasmi generalizzati e accordi economici del valore stimato in 600 miliardi di dollari.

Ridefinire gli assetti

Dietro agli incontri di questi giorni si profila dunque il disegno, dai contorni ancora assai poco chiari, di ridefinire l’assetto dell’area mediorientale. Sull’aereo che lo portava in Qatar, Trump ha rapidamente toccato la spinosa questione che incombe sulla missione mediorientale: il rapporto con Israele. Il presidente ha scelto di non visitare lo stato ebraico nel tour dei paesi del Golfo, e dal governo Netanyahu sono arrivati chiari segnali di insofferenza per quella che viene percepita come una marginalizzazione dello storico alleato. Inoltre, il governo di Israele è contrario alla sospensione delle sanzioni alla Siria.

«Questo è buono per Israele», ha detto Trump in viaggio verso Doha, «avere relazioni come quelle che ho io con questi paesi». Un commento riparatore che non può cancellare le frizioni che emergono in questa fase.

La trattativa, all’insaputa dell’alleato, per liberare Edan Alexander, l’ultimo ostaggio americano vivo nelle mani di Hamas, non è piaciuta a Tel Aviv, e ha sottolineato un approccio “America First” che ha fatto apparire, per contrasto, la debolezza dell’iniziativa israeliana per liberare gli ostaggi.

I dettagli che sono emersi sulla trattativa, condotta dall’onnipresente inviato trumpiano Steven Witkoff, peggiorano la posizione di Trump agli occhi di Netanyahu.

Secondo quanto riportato da Axios, i contatti che hanno portato alla liberazione di Alexander sono cominciati quando un funzionario di Hamas ha contattato Bishara Bahbah, ex leader del gruppo Arabi-americani per Trump. Grazie alla mediazione di Bahbah la questione è arrivata sulla scrivania di Witkoff e per qualche settimana i contatti diretti fra Hamas e l’amministrazione Usa sono andati avanti a fari spenti, per poi accelerare improvvisamente, fino alla liberazione.

A peggiorare le cose, dal punto di vista di Netanyahu, è stato il tentativo di Trump di incontrare l’ostaggio liberato per intestarsi la vittoria diplomatica, ma per evitare una inopportuna deviazione su Tel Aviv gli americani hanno insistito che l’incontro avvenisse a Doha. Un’idea che il governo israeliano ha preso malissimo, visto che considera il Qatar uno dei grandi sponsor di Hamas. Dopo una girandola di dichiarazioni contraddittorie sull’ipotesi, la famiglia di Alexander ha dichiarato che le condizioni di salute del giovane non permettevano un altro viaggio, e così la faccenda si è conclusa con una visita di Witkoff, che ha agevolato una telefonata con il presidente.

I malumori di Netanyahu

La vicenda dell’ostaggio arriva a valle della delusione da parte di Israele per l’improvviso stop dei bombardamenti americani alle basi degli Houthi. Dopo una campagna a intensità variabile durata sette settimane, gli Stati Uniti hanno stabilito una tregua con i ribelli yemeniti sostenuti dall’Iran senza pretendere in cambio la garanzia di non attaccare Israele. Il missile degli Houthi che ha colpito l’area dell’aeroporto di Tel Aviv era il segno tangibile della mancata difesa di Israele da parte dell’alleato.

Ancora più profonda la ferita inferta con il riavvio dei negoziati diretti con l’Iran sul nucleare, circostanza che ha congelato ogni ipotesi di attacco strategico da parte di Israele al regime di Teheran.

Trump ha dato un segnale in questo senso dal summit per la cooperazione del Golfo ospitato da bin Salman, ribadendo che gli ayatollah «non possono avere armi nucleari»: «Voglio fare un accordo con l’Iran. Ma, perché questo accada, deve smettere di sponsorizzare il terrorismo, fermare le loro sanguinose guerre per procura e fermare in modo verificabile e permanente la corsa verso le armi nucleari», ha detto il presidente, che finora è stato però molto vago sui termini di un possibile accordo.

Troppo vago per Israele, che subisce anche gli effetti della guerra commerciale indetta dall’amministrazione. La Casa Bianca ha imposto dazi del 17 per cento sui beni israeliani esportati verso gli Stati Uniti, circostanza che aggiunge un nuovo tassello alla convinzione maturata da Netanyahu: sulla politica verso Israele, il secondo mandato di Trump è molto diverso dal primo.

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