L’amministrazione Trump è sempre alla ricerca di nuovi paesi in cui deportare migranti e criminali, e secondo la Reuters è imminente la partenza di voli militari verso la Libia, seguendo il modello già sperimentato con El Salvador, Costa Rica, Panama e altri paesi. La Casa Bianca non ha commentato la notizia, riferita all’agenzia da tre funzionari del governo e poi rilanciata con dettagli ulteriori anche dal New York Times.

Le voci su un possibile accordo con Tripoli circolano da tempo e sono in linea con il messaggio che il segretario di Stato, Marco Rubio, ripete senza posa: «Stiamo attivamente cercando altri paesi che possano ospitare persone di paesi terzi», ha spiegato. «Lavoriamo con diversi paesi e chiediamo loro: prendereste alcune fra le persone più vili della terra per farci un favore? Più lontane sono dall’America, meglio è, così non potranno varcare nuovamente il confine».

Legalità dubbia

La pratica di deportare “clandestini” e criminali è di legalità più che dubbia – come si è visto nel caso dei membri di gang venezuelani portati a El Salvador – e Trump ha espressamente detto che sta considerando di mandare anche cittadini americani in paesi terzi (mentre lavora alla riapertura di Alcatraz, già che c’è), ma nel caso della Libia le cose sono ancora più complicate.

Se a El Salvador può contare sull’efficiente appoggio del suo leader autoritario preferito – il re-filosofo Nayib Bukele, maestro di incarcerazioni di massa e criptovalute – a Tripoli c’è un precario governo di unità nazionale riconosciuto dalla comunità internazionale e in perenne tensione con il governo semi-indipendente di Khalifa Haftar, che controlla con le sue milizie la parte orientale del paese.

Il governo presieduto da Abdul Hamid Dbeibeh ha negato di aver stipulato accordi con l’amministrazione di Trump per il trasferimento di migranti in Libia, sottolineando in un comunicato che «parti parallele potrebbero essere state coinvolte nella stipula di accordi». Dbeibeh ha aggiunto che eventuali accordi raggiunti da parti illegittime non rappresentano lo stato libico e non vincolano il governo né politicamente né moralmente. Il riferimento è appunto all’entità parallela di Haftar, che a sua volta ha negato un accordo con Washington, dicendo che il trasferimento di migranti «violerebbe la sovranità della patria». Non sfugge, tuttavia, che la notizia riportata dalla Reuters arriva al termine di una missione diplomatica americana del figlio di Haftar, Saddam, che la settimana scorsa ha incontrato funzionari diplomatici e della sicurezza a Washington.

Durante il primo mandato, Trump ha tenuto rapporti amichevoli con le milizie di Haftar, che controllano giacimenti di petrolio e altre risorse energetiche, e non è difficile immaginare che l’amministrazione, nella sua costante ricerca di sponde per sbarazzarsi di clandestini aggirando il sistema legale americano, abbia intessuto una trattativa con i governanti dell’est. Cosa che ha scatenato la reazione di Tripoli.

Bande armate

In mezzo a queste entità in conflitto c’è un pericoloso mosaico di bande armate che regolano la vita di un paese che costeggia il collasso. In particolare sono tristemente famose le prigioni e i centri di detenzione, luoghi di tortura che operano al di fuori del rispetto dei diritti umani.

Il dipartimento di Stato nel suo report annuale sulla situazione internazionale parla di «condizioni carcerarie dure» e di «arresti e detenzioni arbitrarie», consigliando ai cittadini americani di non visitare il paese per via di «crimini, proteste, rapimenti e conflitti armati».

Si tratta di condizioni che non impediscono all’amministrazione di discutere l’ipotesi di trasferire migranti in Libia, circostanza che il dipartimento di Stato non ha negato, limitandosi a dichiarare che «non discute i dettagli delle nostre comunicazioni diplomatiche con altri governi».

Per illustrare ancora meglio le condizioni delle prigioni libiche dove Trump vorrebbe trasferire dei migranti, ieri la ong Mediterranea Saving Humans ha pubblicato un video che mostra i crimini e soprusi nel carcere di Zawhia, controllato dal generale Almasri, l’aguzzino ricercato per ricercato per crimini contro l'umanità che il governo Meloni ha rimpatriato a febbraio, ignorando il mandato d’arresto della Corte penale internazionale.

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