“Salvare” l’Europa dalla Ue, l’ambigua strategia di Trump

La discussa National Security Strategy dell’amministrazione Trump ha segnato un passaggio politico che va oltre la consueta dialettica transatlantica. Il documento fissa una frattura visibile da tempo con il continente vecchio e sull’orlo del collasso di civiltà, ma questa volta ha fatto scalpore perché viene incorporata nella strategia per la sicurezza americana e non è mascherata da formule diplomatiche. La rottura è un dato strategico dichiarato. La strategia chiarisce che Washington non intende più sostenere l’ordine internazionale come suo perno insostituibile. «I giorni in cui gli Stati Uniti reggevano l’intero sistema mondiale come Atlante sono finiti», si legge nel testo, che predica una visione dell’interesse nazionale più circoscritta. L’impegno americano all’estero viene subordinato a una condizione precisa, cioè che le attività di altri paesi costituiscano una minaccia diretta alla sicurezza, alla prosperità o alla libertà degli Stati Uniti. È una formulazione in aperta discontinuità con l’idea di leadership globale esercitata in nome di valori condivisi e che riprende le linee della dottrina Monroe, aggiornata con il “corollario Trump”. L’Europa occupa una posizione centrale in questa ridefinizione. La National Security Strategy individua nel continente una serie di vulnerabilità che non riguardano soltanto la capacità militare, ma investono il piano politico e culturale. Il documento parla di organismi sovranazionali che erodono la sovranità, di politiche migratorie che trasformano il tessuto sociale, di restrizioni alla libertà di espressione, di declino demografico e di perdita di fiducia nell’identità nazionale. L’Europa viene descritta come uno spazio indebolito, incapace di sostenere il proprio peso strategico. Dire che Trump divorzia dall’Europa è però corretto solo fino a un certo punto. Il documento va letto su almeno tre livelli: la continuità storica della richiesta americana di maggiore impegno europeo; la critica specifica all’Unione europea, distinta dall’Europa come civiltà; e infine la genesi politica del documento, che ha avuto una storia travagliata, è stato pubblicato senza convocare nemmeno una conferenza stampa e grazie alle indiscrezioni della testata Defense One sappiamo che ne esiste una versione più estesa e dettagliata. Marion Maréchal: «C’è già una maggioranza Giorgia». Il reset trumpiano dell’Ue Una richiesta antica Il primo livello riguarda la richiesta rivolta agli alleati europei di assumersi una quota maggiore di responsabilità politica e di difesa. Trump ha tutto l’interesse a presentarla come una grande svolta, ma è un tema classico che attraversa l’intero dopoguerra. Già Dwight Eisenhower, da presidente e prima ancora da comandante supremo delle forze alleate, avvertiva che un’alleanza fondata su un contributo asimmetrico non poteva reggere nel lungo periodo. Mentre il piano Marshall faceva la sua parte nella ricostruzione, lui esortava in tutti i modi possibili gli alleati a prendersi le proprie responsabilità, in modo che l’alleanza non si trasformasse in una dipendenza a tempo indeterminato. Da allora, il messaggio è stato ripetuto da amministrazioni di ogni colore politico. Tutti hanno sollecitato l’Europa a investire di più nella sicurezza comune. La differenza introdotta da Trump riguarda il linguaggio e la pressione politica esercitata. Il richiamo diplomatico lascia spazio a un’impostazione conflittuale, accompagnata dalla minaccia esplicita di disimpegno. Che questa strategia abbia prodotto effetti è riconosciuto anche da figure lontane dal trumpismo. Il generale David Petraeus, ex direttore della Cia, lo ha detto chiaramente: «Non è una cattiva cosa che i paesi europei abbiano ricevuto una sveglia». Petraeus ha ricordato di aver visto «quattro diversi presidenti» tentare senza successo di spingere l’Europa a fare di più per la propria difesa. Trump, ha aggiunto, è stato «molto, molto sostanziale» nel costringerla ad aumentare gli impegni: «Li ha portati a fare ciò che avrebbero dovuto fare anni fa». La nuova strategia prende atto di questo risultato e lo trasforma in dottrina: l’alleanza resta, ma non può più essere strutturalmente sbilanciata. Trump sottovaluta l’escalation tra Cina e Giappone: gli affari non scongiureranno un nuovo fronte L’obiettivo è l’Ue Il secondo livello è ideologico e riguarda il bersaglio della critica americana. La National Security Strategy non attacca l’Europa come spazio storico o culturale, ma l’Unione europea come costruzione politica che in qualche modo ha tradito ideale e valori dell’Europa originaria. Il documento descrive l’Ue come una sovrastruttura burocratica e regolatoria che ha progressivamente allontanato il continente dalle sue radici, riducendo la capacità delle nazioni europee di agire come soggetti politici sovrani. Sono argomentazioni che vengono ripetute da anni nel pensiero conservatore europeo. La Dichiarazione di Parigi del 2017, firmata da un gruppo di intellettuali conservatori e di derivazione cristiano-democratica fra cui Remi Brague, Roger Scruton e Robert Spaemann, parla di una “falsa Europa”, astratta e tecnocratica, contrapposta all’Europa reale delle nazioni, delle tradizioni e delle comunità storiche. La posizione americana si inserisce in questo filone: immagina un rapporto con l’Europa fondato su stati nazionali forti, politicamente responsabili e capaci di sostenere la propria sicurezza, piuttosto che su un interlocutore unico rappresentato dalle istituzioni di Bruxelles. O Maga o addio per sempre. Il ricatto di Trump alla Ue La versione lunga Il terzo livello riguarda la genesi del documento. La versione pubblica della National Security Strategy è il risultato di un processo di selezione politica. Secondo diverse ricostruzioni dei media americani, una versione più lunga e più esplicita del testo ha circolato all’interno dell’amministrazione prima della pubblicazione ufficiale. In quella versione, la critica all’Unione europea assumeva contorni molto più concreti. Il principale architetto di quel documento è stato Michael Anton, che ha guidato l’ufficio della pianificazione politica del dipartimento di Stato fino a settembre. Nella bozza estesa, l’Unione europea veniva descritta come un attore non solo inefficiente, ma strutturalmente ostile agli interessi americani e alla sovranità delle nazioni europee. La versione lunga esplicitava anche il desiderio americano di favorire un riallineamento politico nel continente, incoraggiando singoli paesi a recuperare margini di autonomia rispetto a Bruxelles. In questo quadro venivano citati anche paesi fondatori o storicamente centrali nel progetto europeo, Italia compresa, candidati perfetti per essere allontanati dall’Unione. Questi passaggi sono stati espunti dalla versione finale, che probabilmente è stata messa a punto da Stephen Miller, fidato consigliere di Trump sulla sicurezza, ma la logica resta leggibile tra le righe. La strategia pubblicata mantiene l’impianto generale, ma elimina i riferimenti più diretti a un’azione americana volta a ridefinire dall’esterno l’equilibrio politico europeo. Attacco all’Ue, Putin dà ragione a Trump. Ma i primi nemici dell’Europa sono interni Dal testo finale è scomparso anche il riferimento critico all’egemonia americana: «L’egemonia è la cosa sbagliata da desiderare e non può essere ottenuta», si legge nelle bozze circolate della versione estesa. È un tema classico di Anton e della corrente del disimpegno americano, che però nella versione pubblica ha cercato un bilanciamento con le voci di chi ha intenzione di modificare e adattare il principio dell’egemonia americana globale, non di abbandonarlo.