Il venditore ambulante tunisino che decide di darsi fuoco il 17 dicembre 2010 non voleva scatenare una rivoluzione. Mohamed Bouazizi ha solo 26 anni e si immola davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid, una città della provincia omonima in Tunisia. È disperato perché le forze di polizia gli hanno sequestrato della merce che doveva vendere e gli hanno ritirato la licenza. Non può immaginare che da quel giorno, prima in Tunisia e poi quasi in tutto il medio oriente e il nord Africa, milioni di persone scenderanno in piazza per protestare e cercare di migliorare le proprie condizioni di vita, portando alla caduta di diversi rais e allo scoppio di micidiali guerre civili.

Il periodo più caldo è soprattutto a gennaio e febbraio del 2011, quando il mondo arabo viene messo a ferro e fuoco da grandi movimenti di massa che provano ad avviare dei processi di democratizzazione: il fenomeno che diverrà famoso come “primavere arabe”. Nonostante alcuni apparenti successi iniziali, a distanza di più di undici anni, si può capire meglio la portata e l’esito di questi moti: tra cambi di regime, fallimento di stati e conflitti interni.

Tunisia, da dove parte tutto

Le proteste dopo il gesto di Bouzizi, contro la corruzione dilagante e le difficili condizioni economiche (in particolare quelle giovanili), cominciano quasi immediatamente. Tra la fine del 2010 e gennaio del 2011, infatti, le manifestazioni si moltiplicano, raggiungendo anche la capitale Tunisi. Ad aumentare la portata della rivolta, la morte del giovane ambulante avvenuta il 4 gennaio per via delle ustioni riportate. Alle sempre più partecipate iniziative di piazza, il governo risponde con una dura repressione: sono decine i morti e centinaia le persone ferite a causa dei disordini. 

Nel paese sull’orlo del caos le proteste si diffondono, membri delle forze di sicurezza si uniscono ai manifestanti creando ancora più confusione. Al potere c’è il presidente Zine el-Abidine Ben Ali, alla guida della Tunisia dal 1987. Dopo alcuni tentativi compiuti dal presidente per venire incontro al popolo in rivolta, come la promessa di non ricandidarsi nel 2014 o di creare nuovi posti di lavoro, Ben Ali il 14 gennaio è costretto alle dimissioni e scappa in Arabia Saudita.

Il risultato di quella che poi viene ricordata come la “rivoluzione dei gelsomini” è l’inizio di una difficile transizione politica. Nell’ottobre successivo viene infatti eletta un’assemblea costituente, con l’obiettivo di portare il paese fino alle elezioni del 2014 e di scrivere una nuova carta costituzionale. In quei tre anni, in cui il presidente è Moncef Marzouki, il dialogo tra le parti è costante, nonostante l’assassinio di due esponenti politici come Chokri Belaid e Mohamed Brahmi. Inoltre, ad avere un peso importante nel processo democratico è anche la partecipazione della società civile, con sindacati, organizzazioni per i diritti umani e associazioni di avvocati e industriali.

Il testo della Costituzione entra in vigore nel gennaio del 2014: da una parte viene ridimensionato il potere presidenziale e dall’altra garantita una serie di diritti. La tornata elettorale – la prima nella storia della Repubblica tunisina a svolgersi in maniera democratica – si tiene invece nell’ottobre successivo. A uscirne vincitore è l’ex capo del governo transitorio Beji Caid Essebsi, eletto a dicembre presidente della Repubblica. I due principali partiti – Ennahda, islamico moderato, e Nidaa Tounes, laico – formano così un governo di coalizione con a capo Habib Essid, rimasto premier per diciotto mesi.

A succedergli, nel 2016, è Youssef Chahed. Nel frattempo, la situazione economica del paese rimane precaria e per questo le proteste non si fermano.

Ma la transizione rischia di arrestarsi dopo la morte del presidente Essebsi, nel luglio 2019. La sua carica, infatti, viene presa ad interim da Mohamed Ennaceur fino a ottobre, quando dopo le elezioni sale al potere Kais Saied.

La gestione della pandemia e della crisi economica che non accenna a dare tregua alla Tunisia, sono i motivi per cui fin dall’inizio del 2021 le piazze si riempiono nuovamente, con diverse manifestazioni contro il governo. Proteste, represse duramente e con migliaia di arresti, continuate fino all’estate del 2021, quando Saied solleva dall’incarico il primo ministro Hicham Mechichi, sospende il parlamento e assume il potere esecutivo. Una mossa che l’allora presidente della Camera del paese, Rached Gannouchi, definisce un «colpo di stato alla Costituzione».

L’iniziativa anti democratica di Saied – la cui figura gode comunque di un ampio consenso popolare – prosegue nei mesi successivi, con lo scioglimento del parlamento e l’indizione di un referendum nel luglio del 2022 per adottare una nuova Costituzione. Nel testo è previsto un aumento dei poteri nelle mani del presidente rispetto al parlamento e il governo, nonché la mancanza di un effettivo controllo sul capo di stato. Un referendum contestato per la bassa affluenza (circa il 30 per cento) e visto da diversi analisti come l’atto in cui le speranze di democratizzazione del paese – che hanno animato la rivoluzione del 2011 – si sono infrante. 

Egitto, da Mubarak ad al Sisi

Pochi giorni dopo la caduta di Ben Ali in Tunisia, anche l’Egitto viene attraversato da importanti proteste. La prima imponente manifestazione è quella di piazza Tarhir, al Cairo, il 25 gennaio 2011 dove migliaia di persone scendono in strada per cercare di ottenere riforme costituzionali ed economiche per il paese. Proteste che si allargano in diverse città egiziane, dove non mancano disordini e scontri, con centinaia di vittime e migliaia di fermi. 

Hosni Mubarak, presidente dal 1981, sulla scia di quanto avvenuto a Tunisi blocca la rete internet nel paese e solleva dall’incarico il premier Ahmed Nazif. Ma la rivolta continua e l’annuncio della non ricandidatura di Mubarak non basta a fermare la popolazione. Isolato dalla comunità internazionale, l’11 febbraio il presidente si dimette, consegnando il potere a una giunta militare. 

Inizia anche in quel caso una delicata fase transitoria verso la democrazia, con le elezioni del 2012 che vedono la vittoria di Mohammed Mursi, candidato del partito Giustizia e libertà, braccio politico della Fratellanza musulmana. La sua presidenza, però, dura solo un anno: dopo le manifestazioni di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, guidate dall’opposizione, il 3 luglio del 2013 avviene un colpo di stato da parte dell’esercito.

A guidarlo è il generale Abdel Fattah al Sisi. Il presidente ad interim diventa Adli Mansur, la Costituzione è sospesa e al Sisi si dimette dall’esercito per correre alle elezioni nel maggio 2014. Dalle urne, l’ex militare esce vincitore con oltre il 96 per cento delle preferenze contro l’unico concorrente, Hamdin Sabahi.

Da quando l’ex generale è diventato presidente, in nome della sicurezza del paese e della lotta al terrorismo, dissenso e diritti sono stati limitati pesantemente, colpendo opposizioni e società civile con migliaia di arresti arbitrari. Nel 2017 e nel 2018 sono state approvate due leggi – una sulle ong e l’altra sui mezzi d’informazione – che hanno ristretto la libertà di espressione.

Il 2018 è stato anche l’anno della rielezione di al Sisi, arrivata a marzo con una percentuale del 97 per cento dei voti, in un’elezione boicottata e contestata dalle opposizioni. Alle urne si è presentato circa il 40 per cento degli aventi diritto e l’unico candidato a sfidare al Sisi di fatto non gli si opponeva. L’anno successivo, invece, arriva un altro colpo alla democrazia, con l’approvazione di un referendum costituzionale che permetterà ad al Sisi di rimanere al potere fino al 2030. Come un moderno rais.

Libia, la caduta del rais e il fallimento dello stato

Le proteste, che avevano inizialmente aggirato la Libia, a metà febbraio del 2011 coinvolgono anche il paese retto da Muammar Gheddafi dal 1979. Le prime manifestazioni si svolgono a Bengasi, per poi estendersi in altre città. Tutta la regione della Cirenaica ne è toccata, con dimostrazioni che si trasformano in scontri aperti con le forze di sicurezza.

Ai ribelli si uniscono membri dell’esercito e interi reparti militari, scatenando di fatto una guerra civile. Si forma così il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), per rappresentare i territori controllati dai ribelli. Intanto Gheddafi cerca di rimanere aggrappato al potere, nonostante il paese sia diviso e le proteste siano giunte fino alla capitale Tripoli. 

A marzo avviene la svolta. L’Onu dichiara una no fly zone sulla Libia per colpire l’aviazione di Gheddafi e con un’operazione sostenuta soprattutto da Francia e Regno Unito, sotto il cappello della Nato, inizia i bombardamenti contro le forze del rais. Un vantaggio totale per gli insorti che continuano ad avanzare: in estate conquistano Tripoli e a ottobre Sirte, dove si era rifugiato Gheddafi che viene trovato e ucciso. 

Da lì si apre una lunga fase di instabilità, con le divisioni all’interno del Cnt e la presenza di milizie radicali islamiste nel paese, tra cui l’Isis. Una situazione che sfocia in un’altra guerra civile nel 2014, con il generale Khalifa Haftar che tenta il colpo di stato e attacca i gruppi islamici di Bengasi, l’Onu che abbandona il paese e diverse ambasciate che chiudono. A Tobruk governa il premier Abdullah Al Thani, a Tripoli le milizie islamiche e l’Isis a Derna. 

L’anno successivo Fayez Serraj è nominato dalle Nazioni unite capo del Governo di accordo nazionale di Tripoli (Gna), che viene annunciato nel 2016, riconosciuto da diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia.

Haftar, intanto, prende sempre più controllo nell’est del paese fino al 2019, quando inizia l’operazione militare del generale per conquistare anche la Tripolitania. Le forze di Serraj, dopo un iniziale periodo di difficoltà, tengono e a giugno 2020 Haftar è costretto a ripiegare. Nel frattempo si scatena una guerra per procura, con l’intervento di attori regionali e internazionali, che fiancheggiano sul terreno i due schieramenti. 

Dopo il cessate il fuoco e il passo indietro di Serraj e quello parziale di Haftar, la Libia – considerato uno stato fallito – è ancora oggi divisa tra il Governo di unità nazionale di Abdul Hamid Ddeibah a Tripoli e quello di stabilità nazionale di Fathi Bashagha a Tobruk. Le elezioni del 2021 sono saltate e durante l’estate scorsa, in tutta la Libia si sono svolte nuove proteste a causa delle critiche condizioni economiche e la corruzione nel paese. Emblematiche le bandiere verdi del regime di Gheddafi brandite in alcuni casi dai manifestanti.

La guerra civile in Siria

In Siria l’onda delle primavere arabe arriva nel marzo 2011. Il centro delle proteste è Daraa, dove migliaia di persone scendono in piazza a favore di alcuni ragazzi arrestati dopo aver scritto sui muri della città messaggi a favore delle rivolte in Tunisia ed Egitto.

Nonostante la pesante repressione del governo di Bashar al Assad – alla guida della Siria dal 2000 – le manifestazioni si allargano in altri centri, chiedendo il cambio di regime e maggiore democrazia. Il pugno di ferro del presidente causa migliaia di morti nel 2011, con Assad che promette riforme ma non le realizza. 

Anche in questo caso, in pochi mesi le proteste diventano un’insurrezione armata e quindi una guerra civile. Il conflitto si aggrava con l’entrata in gioco di diverse forze jihadiste, tra cui lo Stato islamico, e delle potenze internazionali, che intervengono militarmente e con sanzioni economiche.

Intanto Assad riesce a mantenere il potere, grazie anche all’appoggio della Russia di Putin dal 2015 e all’offensiva condotta contro i ribelli e lo Stato islamico, che nel frattempo si è espanso in Siria. Il presidente è accusato – tra le altre cose – di aver usato armi chimiche e di aver bombardato deliberatamente civili. Il bollettino per il paese dopo undici anni di guerra è di quasi 400mila morti, milioni di profughi e una grave crisi economica. 

Il conflitto dimenticato dello Yemen

Un altro conflitto scoppiato a seguito delle primavere arabe è quello in Yemen. Nel gennaio e febbraio del 2011 il paese è attraversato da diverse manifestazioni contro l’estrema povertà in cui vive gran parte della popolazione. Il presidente dal 1978 è Alì Abdullah Saleh che non sembra intenzionato a fare passi indietro. Ma il 3 giugno Saleh è vittima di un attentato in cui rimane ferito ed è costretto a ripiegare in Arabia Saudita per curarsi. Le proteste continuano e Saleh, nel febbraio del 2012, passa il potere nelle mani di Abd Rabbih Mansur Hadi. 

Tuttavia lo Yemen non si pacifica e le rivolte sfociano in una vera guerra civile, con le milizie Houthi che conquistano la capitale Sana’a nel 2014. Hadi ripiega ad Aden, nel sud del paese. A intervenire militarmente al suo fianco è l’Arabia Saudita, che nel 2015 invia soldati e soprattutto l’aviazione, che comincia a colpire gli Houthi, sostenuti invece dall’Iran. L’ex presidente Saleh esce di scena quando viene ucciso nel 2017 dagli stessi Houthi.

Il conflitto prosegue, con crimini di guerra, bombardamenti su civili e una popolazione allo stremo. Lo Yemen – spesso lontano dall’attenzione globale – è considerato uno stato fallito dopo undici anni di violenze, centinaia di migliaia di morti e milioni di rifugiati.

La primavera in ritardo dell’Algeria

Anche in Algeria, dopo lo scoppio delle proteste in Tunisia, nel dicembre 2010 iniziano manifestazioni per motivazioni socio economiche, come il caro prezzi, la corruzione e la disoccupazione giovanile nel paese guidato da Abdelaziz Bouteflika. La tensione per settimane è alta, ma il presidente in sella dal 1999 riesce a mantenere il controllo del paese, anche grazie alla concessione di sussidi. 

Nel 2014 Bouteflika, gravemente malato, viene rieletto per un quarto mandato. Dopo anni di stallo, nel febbraio del 2019 migliaia di persone sono scese per strada per contestare l’ipotesi di un’ulteriore rielezione del presidente. Proteste per lo più pacifiche, conosciute come “Hirak”, che hanno portato alle dimissioni di Bouteflika, pressato anche dall’esercito. Nel dicembre successivo, nelle elezioni presidenziali vince Abdelmadjid Tebboune.

Bahrain e Giordania

In altri paesi le primavere arabe passano velocemente, senza provocare effetti neanche immediati. In Bahrain inizia nel febbraio 2011 con migliaia di persone che si riversano nelle strade di Manama, desiderose di una maggiore democratizzazione del paese e di riforme economiche. È soprattutto la comunità sciita a chiedere la destituzione del re Hamad bin Isa al Khalifa. Il regime sunnita è accusato di discriminare gli sciiti, maggioranza della popolazione. Le proteste continuano anche negli anni successivi ma in Bahrain non portano a cambi di regime, anche per la poca attenzione internazionale.

Nel 2011 e 2012 la Giordania è interessata da grandi manifestazioni contro l’estrema povertà, la corruzione e la disoccupazione dilagante nel paese. Ma la contestazione non è rivolta al re Abd Allah II, sul trono dal 1999, ma verso l’esecutivo. Il re opta per cambi di governo e un programma di riforme per venire incontro alla popolazione, riuscendo a dividere le opposizioni, limitando il malcontento e smontando quei moti che altrove hanno avuto effetti più dirompenti.

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