C’è di nuovo la guerra in Iraq del nord. Da settimane attacchi turchi contro le basi del Pkk, il partito dei lavoratori curdi (diretto da Abdullah Ochalan, prigioniero in Turchia), sono sfociati in bombardamenti e pare anche in attacchi di paracadutisti di Ankara sul suolo iracheno, che sarebbero stati respinti dai guerriglieri. Almeno tre soldati turchi sarebbero stati uccisi. Subito violenta è scoppiata la polemica sull’uccisione di altri tredici turchi (soldati, poliziotti e due civili) da tempo nelle mani del Pkk.

Per Ankara costoro sarebbero stati freddamente giustiziati; per i curdi sarebbero invece morti a causa dei bombardamenti, cioè vittime collaterali della battaglia. Come altre volte in questi anni, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha accusato gli Stati Uniti di sostenere il terrorismo solo per il fatto che il comunicato del dipartimento di Stato non si appiattiva del tutto sulla versione di Ankara.

Il ministero degli Esteri turco ha convocato l’ambasciatore americano ottenendo una parziale correzione. Secondo il Pkk l’aviazione militare turca ha compiuto oltre 40 raid.

Lo scontro in un altro paese

Ciò che preoccupa non è tanto la ben nota ostilità tra turchi e Pkk ma il fatto che i combattimenti si svolgano sul territorio di un altro stato sovrano, l’Iraq, senza che ciò susciti reazioni di qualunque tipo né a Baghdad, né a Erbil né presso la comunità internazionale.

Il Pkk, che ha preso le difese degli yezidi sopravvissuti del Sinjar, sospetta che vi sia un accordo tra le autorità turche, irachene e curdo-irachene per spingerlo fuori, verso la Turchia. Tutto sembra andare nella direzione dello scoppio di un altro conflitto, oltre quello già in atto nella vicina Siria.

Le azioni turche si sono svolte nei pressi di Dohuk, dove sono concentrati numerosi cristiani fuggiti dalla valle di Ninive, Karakosh, Bertella e dai villaggi attorno, dopo che l’Isis le aveva occupate. Era una zona totalmente cristiana, forse l’unica rimasta nel paese. Con la caduta dello Stato islamico, in pochi sono voluti rientrare, anche a causa della distruzione e della pulizia etnica operata dallo stato islamico e che ora le milizie sciite confermano a proprio vantaggio. Difficile immaginare che si possa tornare alla situazione antecedente. Ciò concerne anche gli yezidi del Sinjar e molte altre minoranze come i turcomanni, gli shabak, i kakoi o i mandei.

In un primo momento i curdi iracheni della regione autonoma, dove il potere è in mano al Pdk di Massoud Barzani, erano ben felici di attrarre le minoranze (in specie i cristiani) nella loro area.

Molti sforzi sono stati fatti per persuadere i profughi a fissarsi nella zona autonoma: una mossa tattica per favorire il referendum indipendentista di due anni fa. Tuttavia dopo l’opposizione della comunità internazionale a ogni secessione, i curdi hanno perso interesse a farsi nuovi alleati tra le minoranze.

Anzi: tutta questa presenza ora crea fastidi. Così sono risorte le antiche diffidenze e la coabitazione sta diventando complicata.

Agire per evitare una catastrofe

Oggi la popolazione del Kurdistan iracheno ammonta a circa otto milioni di persone, con un flusso di profughi che continua malgrado il clima di sospetti reciproci. Con lo stabilirsi del Pkk, i ripetuti interventi militari turchi nell’area rendono la vita della regione ancor più difficile: cristiani, yezidi e altre minoranze rischiano di trovarsi per l’ennesima volta ostaggi di una guerra non loro.

In tale situazione critica la comunità internazionale, e in particolare l’Europa, dovrebbero agire a protezione dell’esistenza dei più deboli senza attendere la prossima catastrofe. Proprio in queste settimane all’istituto medico legale di Baghdad si stanno analizzando i resti delle 17 fosse comuni fino a ora scoperte nell’area, attorno al villaggio di Kocho: si tratta dei corpi del massacro degli yezidi.

Fino a ora sono stati identificati oltre cento vittime e la piccola comunità sta rivivendo l’orrore del 2014 quando fu spazzata via dall’Isis, con la morte di circa 5.000 persone. Secondo le autorità regionali curde nei campi rifugiati yezidi il tasso di suicidi è salito.

Le associazioni e le Ong criticano l’amministrazione regionale per non provvedere abbastanza, soprattutto ai minori traumatizzati e rimasti senza famiglia.

A differenza dei cristiani, gli yezidi non possono sperare di trasferirsi in occidente. Malgrado tali difficoltà, il Kurdistan iracheno rimane comunque l’unica speranza per le minoranze: sta addirittura crescendo la presenza degli zoroastriani che ora contano 25mila membri iscritti.

Salvo eccezioni, nessuno si arrischia più a tornare nella parte sunnita o sciita del paese, dove la pressione contro le minoranze è fortissima. Il clero cristiano ha riaperto le chiese a Mosul e nelle altre città da dove era stato cacciato dallo Stato islamico, ma è rimasto quasi senza popolo.

Chiese vuote

Resistono soltanto i cristiani di Baghdad. Il cardinale Sako, patriarca dei caldei, parla al massimo di 200mila cristiani in tutto il paese. La sua preoccupazione è per il ritorno dell’Isis ma anche per la pressione violenta delle milizie sciite: per i cristiani sembra non ci sia più spazio.

La prossima visita di Papa Francesco nel paese potrà accendere l’attenzione internazionale su tale situazione e anche dare un po’ di speranza. Così come accade in Siria, anche in Iraq lo stato islamico si sta riorganizzando.

Nel triangolo sunnita (i governatorati di Kirkuk, Salah al-Dine e Diyala) i casi di attacchi sono più numerosi. A gennaio ci sono stati attentati con decine di morti a nord della capitale, in particolare uno suicida in un mercato del centro, che ha fatto 32 vittime. Secondo gli esperti, l’obiettivo dell’Isis è dimostrare di essere ancora in vita.

Laddove la rinascita dello stato islamico rappresenta un vero pericolo è nella zona centrale perché supportata o celata dalle tribù sunnite. Tale nefasto revival ha gettato nel panico molti e certamente le minoranze che si chiedono quando finirà l’incubo.

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