«Dost acı söyler», recita un proverbio turco. Significa letteralmente: un amico parla amaramente. Significa che dice sempre la verità, anche quando il suo amico ha torto.

In questi tredici mesi di guerra, sembra che Ankara abbia fatto proprio questo con la Russia: l’ha condannata, anche in sede Onu, per la violazione della sovranità ucraina. Eppure, allo stesso tempo, ha biasimato anche le sanzioni occidentali (di cui essa stessa è stata vittima) e ha rafforzato i propri legami commerciali con Mosca.

Essenzialmente, dunque, è rimasta un paese amico della Russia – condizione che, secondo la narrazione turca, le è indispensabile per esercitare un ruolo di potenza mediatrice.

E la sua mediazione, ad oggi, è l’unica ad aver ottenuto qualche risultato sul piano diplomatico, oltre a consentire a Recep Tayyip Erdoğan di trarre dei vantaggi politici ed economici.

Tuttavia, questa ambiguità strategica, questa posizione neutrale (tarafsız in turco, cioè “senza lato”) sembra sempre meno sostenibile nel lungo periodo. Le pressioni occidentali sempre più forti e le crescenti sfide interne potrebbero infatti portare a una evoluzione della posizione turca, anche nell’immediato futuro.

L’attivismo paga

La capacità del presidente Erdoğan di rendersi indispensabile per entrambe le parti del conflitto e di aumentare la sua influenza regionale ed economica ha portato alcuni giornalisti a nominare la Turchia il «vincitore inaspettato» del conflitto.

Dall’inizio dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina, la Turchia è diventata infatti uno dei principali attori del conflitto. Questo non dovrebbe sorprendere. Ankara è una potenza regionale chiave nel mar Nero e controlla gli stretti che lo collegano al Mediterraneo. La stabilità della regione rientra, dunque, nei suoi interessi strategici.

Inoltre, negli ultimi decenni, la Turchia ha sviluppato un rapporto sempre più intenso, anche se non privo di criticità, con la Russia. Spesso etichettata come “matrimonio di convenienza” o “cooperazione competitiva”, la loro relazione è però asimmetrica, visto che la Russia rimane l’attore più forte dal punto di vista economico e politico.

Eppure, resta salda nonostante gli attriti in Siria, Libia, Caucaso meridionale e anche Ucraina (soprattutto dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014).

Allo stesso tempo, Ankara si è però avvicinata sempre di più a Kiev, sostenendola anche con la vendita (e, sporadicamente, la donazione) dei famosi droni Bayraktar TB2, elogiati in una canzone ucraina che è diventata virale sui social media.

Per la Turchia, la cooperazione politica e di difesa con l’Ucraina è, tra l’altro, un modo per contenere l'influenza russa nella regione del Mar Nero.

Appoggiandosi ai suoi legami forti e positivi sia con Mosca che con Kiev, Ankara ha utilizzato l’invasione russa per aumentare la sua influenza regionale e globale assumendo il ruolo di mediatore.

Mentre i tentativi di negoziare occidentali sono miseramente falliti, è riuscita a ottenere alcuni successi: insieme alle Nazioni unite, ha siglato la Black Sea Grain Initiative, comunemente nota come «l’accordo del grano», che però rimane ostaggio dei ricatti di Mosca ed è stato rinnovato il 14 marzo per soli 60 giorni.

Inoltre, la Turchia ha facilitato alcuni scambi di prigionieri ad alto livello tra Russia e Ucraina, tra cui uno con combattenti che hanno guidato la difesa delle acciaierie Azovstal di Mariupol.

La mediazione nel conflitto è un modo per migliorare la propria immagine e il suo status, un obiettivo chiave per la Turchia, dopo anni in cui i suoi rapporti tesi sia con gli Stati Uniti che con l’Ue, l’avevano trasformata in una sorta di stato paria.

Ma le ragioni economiche non sono meno importanti. Nonostante Ankara abbia condannato l’invasione ha deciso di non sanzionare il regime di Vladimir Putin, operando anzi come una «piattaforma commerciale» tra la Russia sanzionata e l’occidente sanzionatore: i dati TurkStat mostrano come nel periodo tra gennaio e dicembre 2022, le importazioni dalla Russia siano addirittura cresciute del 34 per cento rispetto all’anno precedente, mentre le esportazioni sono aumentate del 13 per cento rispetto al 2021.

Allo stesso tempo, giornalisti e alti funzionari statunitensi hanno accusato le aziende turche di aver esportato nel 2022 decine di milioni di dollari di macchinari, elettronica, ricambi e altri oggetti di cui la Russia ha bisogno per la sua industria militare, aiutando Mosca ad alimentare la macchina bellica in barba alle sanzioni. Il governo turco ha però finora rispedito queste accuse al mittente.

Una Russia più debole e più isolata permette ad Ankara di riguadagnare influenza e bilanciare il suo rapporto asimmetrico con Mosca. In più, la “distrazione” della Russia in Ucraina può anche rafforzare l'attrattiva della Turchia come centro economico e alleato per la sicurezza di paesi del Caucaso meridionale (come l’Azerbaigian e la Georgia) e dell’Asia centrale.

Ad esempio, la guerra ha favorito un rinvigorimento dell’asse tra Azerbaigian, Georgia, Kazakistan e Turchia per realizzare appieno le potenzialità del “corridoio di mezzo”, ovvero la rotta commerciale che attraversa l’Asia centrale, il Caucaso meridionale e la Turchia.

Attualmente in fase di realizzazione, potrebbe diventare un collegamento tra Europa e Cina sempre più attraente, facendo concorrenza al “corridoio settentrionale”, che attraversa la Russia.

Infine, ci sono anche ragioni di politica interna dietro l’attivismo turco in Ucraina. Dati i problemi finanziari del paese, come l’inflazione alle stelle (in crescita nel 2022 di oltre l’80 per cento su base annua), Erdoğan sembra sfruttare la politica estera per ottenere sostegno in patria in modo da poter mantenere il potere nelle prossime elezioni presidenziali del 14 maggio.

Il potenziamento del ruolo regionale e globale di Ankara è infatti motivo di orgoglio per molti turchi. Nello specifico del caso ucraino, poi, la posizione ufficiale turca riflette quella dell’opinione pubblica: secondo un sondaggio pubblicato dal German Marshall Fund nella primavera scorsa, il 43,7 per cento degli intervistati ha affermato che la Turchia dovrebbe mediare attivamente tra Russia e Ucraina, mentre il 40,1 per cento ha affermato che dovrebbe rimanere neutrale.

Solo l'8,5 per cento e il 4,4 per cento erano convinti che la Turchia dovrebbe sostenere, rispettivamente, l’Ucraina o la Russia.

Fuori linea

La Turchia sta quindi conducendo una politica estera sempre più indipendente senza sentirsi obbligata a seguire una linea rigida “dettata” dall’occidente. Citando Ibrahim Kalin, un consigliere presidenziale, «la Turchia sta cercando di condurre una politica estera a 360°; non vogliamo favorire alcun particolare problema o attore o regione o paese rispetto ad altri».

Una posizione però tutt’altro che isolata, dato che riflette quella di altri diversi paesi del cosiddetto Sud globale che, pur condannando la guerra, hanno scelto di mantenere vivi i rapporti commerciali con la Russia (o addirittura di rafforzarli).

Tuttavia, contrariamente a paesi come l’India o il Sudafrica, l’integrazione della Turchia con le strutture politiche, economiche e di sicurezza occidentali è molto più profonda e rende la pressione occidentale su Ankara più forte e potenzialmente più efficace.

Ad esempio, lo scorso settembre, le banche turche hanno ceduto alle richieste degli Stati Uniti e hanno smesso di operare con il sistema di pagamento Mir, sviluppato dalla banca centrale russa in risposta alla sospensione di simili servizi da parte di Washington.

La sola minaccia di sanzioni secondarie, come il divieto di utilizzare dollari americani, potrebbe avere gravi conseguenze per le banche turche, che dipendono dal prestito di dollari da istituti di credito internazionali.

Inoltre, i terremoti di febbraio, che hanno causato oltre 48mila vittime nella Turchia orientale e meridionale, potrebbero pesare molto sul regime di Erdoğan.

Sebbene sia troppo presto per prevedere le conseguenze politiche di questa tragedia, chiunque abbia familiarità con la politica turca ricorderà le ripercussioni del terremoto di Izmit del 1999 e della crisi economica del 2001, che portarono alla sconfitta nel 2002 delle élite politiche allora al potere.

Nuovi sondaggi mostrano già il candidato presidenziale dell’opposizione turca, Kemal Kılıçdaroğlu, in vantaggio sul presidente di oltre dieci punti percentuali nelle elezioni presidenziali.

Le fragilità economiche e politiche del governo potrebbero quindi renderlo più vulnerabile alle pressioni occidentali affinché si allinei agli altri membri Nato sulla questione Ucraina, e non solo.

Proprio il terremoto e le prossime elezioni offrono uno spiraglio a Finlandia e Svezia (ma anche Stati Uniti) di usare la cosiddetta “diplomazia degli aiuti” per ammorbidire le posizioni di Ankara sull’ingresso dei due paesi nordici nell’Alleanza.

La sempre più pressante richiesta occidentale di limitare i rapporti economico-finanziari con Mosca in un momento di fragilità per il regime turco potrebbero presto portare Ankara a rivedere la propria neutralità ambigua e, forse, anche il “matrimonio di convenienza” con Mosca.

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