Il voto degli elettori di origine latinoamericana è uno dei temi imposti all’attenzione degli osservatori in occasione delle recenti presidenziali statunitensi. Coloro che vengono definiti “latinos” e considerati, per comodità di descrizione e ancor di più di comprensione per un pubblico ampio, come un unico e compatto gruppo etnico. Ma si tratta di una definizione impropria, nonostante essa sia utilizzata anche da istituti di ricerca di dinamiche e flussi elettorali e finanche dal Census bureau. È impropria perché tende ad accomunare elettori che appartengono a gruppi nazionali di varia provenienza.

Le dovute distinzioni

Cosa intendiamo per latinos? In questo eterogeneo raggruppamento troviamo messicani, cubani, salvadoregni, portoricani e così via. Soggetti appartenenti a comunità nazionali caratterizzate da percorsi politici, istituzionali, economici, sociali e culturali che solo raramente hanno coinciso con quelli degli altri membri della famiglia latinoamericana. Perciò non deve sorprendere che negli Stati Uniti, in occasione delle elezioni, i cosiddetti latinos si comportino in maniera tutt’altro che uniforme, appoggiando i diversi schieramenti, con percentuali che divergono a seconda degli stati.

D’altronde, l’errore di catalogazione, per così dire, non è imputabile a chi negli Stati Uniti, e altrove nel mondo, ha l’esigenza di spiegare le cose semplificando, ma deve essere considerato come la naturale conseguenza di un processo di percezione e di rappresentazione dei paesi e dei popoli che vivono a sud degli Stati Uniti che ha origini lontane nel tempo.

L’espressione America Latina, coniata grosso modo alla metà dell’Ottocento, è difatti essa stessa equivoca, sebbene sia ormai di uso comune in quasi tutto il mondo. Il ricorso a essa non è rigoroso né dal punto di vista geografico (per i geografi ad esempio il Messico è un paese dell’America settentrionale), né da quello culturale.

Risulta controverso pure assegnare all’insieme delle repubbliche che si trovano a sud del río Bravo un’identità subcontinentale forte, che poggi su una robusta e sedimentata solidarietà, identità che dovremmo poi ritrovare sul suolo statunitense. Tale attribuzione è smentita dalle evidenti diversità che contraddistinguono le nazioni latinoamericane e dalla storia contemporanea della regione.

Storia, è bene rammentarlo, scandita da relazioni politiche, economiche e culturali molto deboli tra i vari paesi, i quali, peraltro, per gran parte dei due secoli di vita indipendente hanno preferito allacciare e rafforzare vincoli con attori extracontinentali (o con gli Usa) piuttosto che guardare al proprio vicino. Non a caso, all’indomani della fine delle lotte di indipendenza, il libertador Simón Bolívar vide miseramente fallire il suo progetto di creare un’unione degli stati nati dalla dissoluzione dell’impero spagnolo. Né sorte migliore sarebbe toccata, in seguito, a coloro i quali a vario titolo si sarebbero indaffarati, sulla base di una presunta coscienza unitaria, per costituire organismi di cooperazione regionale.

Le ondate migratorie

Tornando ai “latinos” degli Stati Uniti e circoscrivendo la riflessione agli ultimi sessant’anni circa, occorre segnalare che le diverse ondate migratorie di latinoamericani devono essere collocate nel tempo, analizzate sulla base delle ragioni di abbandono dei paesi di partenza e della considerazione che la Casa Bianca, pur abolendo per legge nel 1965 il sistema delle quote nazionali per chi proveniva dall’America Latina, ha sempre operato una gestione selettiva degli ingressi.

Ciò consente di aggiungere spunti di riflessione a dati già acquisiti. Nelle elezioni del 3 novembre, 32 milioni di latinos hanno avuto diritto al voto, sui 60 che risiedono nel paese, di cui meno della metà non può votare perché di età inferiore ai 18 anni o non ha la cittadinanza.

Essi hanno rappresentato la minoranza etnica o razziale più numerosa e tale quota dell’elettorato statunitense ha raggiunto quest’anno la cifra record del 13,3 per cento a fronte dell’11,9 del 2016. Un altro aspetto è la concentrazione territoriale: i due terzi di elettori latinos vivono in appena cinque stati (California, Texas, Florida, New York e Arizona) e nel New Mexico si trova la quota più alta di coloro che hanno diritto al voto.

Sul piano della crescita nel corso del tempo del contingente dei “latinos”, un momento di svolta può essere individuato all’indomani della vittoria della rivoluzione cubana, quando i sostenitori della dittatura rovesciata dai castristi abbandonarono l’isola, seguiti di lì a poco da esponenti moderati della società civile e della politica che pure avevano appoggiato al principio il governo rivoluzionario.

Nel corso dei tre decenni successivi, nuovi contingenti di cubani anticastristi, per lo più di classe alta e liberi professionisti (e in grande maggioranza bianchi) si sarebbero recati negli Stati Uniti, stanziandosi primariamente in Florida, dove attualmente i cubano-statunitensi rappresentano quasi il 30 per cento degli ispanici ma solo il cinque a livello nazionale.

È sufficiente rammentare che alla metà degli anni Settanta avevano lasciato L’Avana e dintorni circa 600mila cubani, cui si aggiunsero all’inizio del decennio seguente altri 130mila connazionali. Sino alla presidenza Clinton che si oppose all’arrivo di altri contingenti di profughi cubani, la Casa Bianca li accolse a braccia aperte per ragioni politiche, come fece in quegli stessi anni con nicaraguensi e salvadoregni per l’ostilità nutrita nei confronti, rispettivamente, dei sandinisti al potere e dei guerriglieri del Frente Farabundo Martí.

Non a caso, la gran parte del milione di rifugiati politici che abbandonarono El Salvador sarebbe approdata negli Usa.

Ambiguità alla Casa Bianca

Tuttavia, con altri gruppi – come haitiani e honduregni e, più di recente, tutti i centroamericani – gli Stati Uniti sono stati più intransigenti perché dai rispettivi paesi si fuggiva, e si fugge, per ragioni economiche. Per quanto concerne i messicani, che negli anni Novanta costituivano la metà degli arrivi dal subcontinente e sino al principio di questo millennio la maggioranza degli immigrati illegali (e attualmente quasi il 60 per cento dell’elettorato latinos a livello nazionale e il gruppo nazionale più consistente), la Casa Bianca ha tenuto un atteggiamento ambiguo e discontinuo, alternando, a seconda delle congiunture, rigidità e tolleranza. Infine, negli ultimi anni, Washington non si è mostrata inflessibile, a causa delle implicazioni politiche, nei confronti dei venezuelani.

Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, degli oltre sei milioni di cittadini che hanno lasciato il Venezuela, 350mila si sono recati negli Stati Uniti.

Quindi, quando si parla di latinos non bisogna dimenticare le loro differenti storie collettive e individuali, il luogo di nascita e le motivazioni politiche. È, tuttavia, possibile operare alcune generalizzazioni, sulla base di tendenze che sembrerebbero essersi consolidate negli ultimi decenni. Fra queste, il fatto che la maggioranza dei latinos sembrerebbe prediligere il partito democratico e, allo stesso tempo, che in stati come la Florida, la presenza di importanti comunità come quella cubano-statunitense e, più di recente, venezuelana, ha favorito l’affermazione del partito repubblicano. Ma si tratta di semplificazioni a cui bisogna ricorrere sempre con estrema cautela.

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