Nell’indagine sulle cause che hanno portato all’aggressione russa dell’Ucraina si enfatizzano generalmente i calcoli strategici e alcuni dati statistici di carattere militare, più o meno oggettivi, in base ai quali si ritiene che sarebbe stato possibile prevedere l’assalto militare russo e le sue conseguenze sul piano geopolitico.

L’analisi politica di genere realistico, che in alcuni suoi interpreti si riduce a una sorta di risiko a uso e consumo dei media e di “indovinate”, almeno da un punto di vista commerciale e di operazioni editoriali, trascura talvolta le questioni ideologiche legate a determinati avvenimenti, preferendo l’applicazione di schemi astratti a ogni contesto nazionale, anche a quelli di cui si conosce poco la storia, la mentalità e il senso comune.

Il prevalere di tale orientamento sembrerebbe costituire, in una certa misura, uno degli effetti della cosiddetta fine delle ideologie e della conseguente omologazione delle categorie dell’analisi politica a una narrazione in grado solo in parte di illuminare i punti oscuri della drammatica vicenda della guerra in Ucraina, se non derubricandoli a conseguenze del possibile stato di infermità mentale del leader russo.

Tra questi punti oscuri, il senso di un’operazione militare che, invece di sancire il trionfo della Russia nel corso di una guerra lampo, al momento è da ritenersi, sotto molteplici aspetti, complessivamente fallimentare.

Le ambizioni polacche

Nella sottovalutazione delle questioni ideologiche, il caso della Polonia appare per molti versi paradigmatico. Alla vigilia del conflitto pochi avrebbero potuto immaginare la straordinaria accoglienza di quasi tre milioni di profughi ucraini da parte dei polacchi, almeno quanto improbabili erano da considerarsi, ancora poche settimane fa, le ambizioni di protagonismo di Varsavia dopo lo scoppio della guerra. Una solidarietà e un protagonismo che hanno a che fare con ragioni storiche, ideologiche prima che tattico-politiche contingenti.

Nel Ventesimo secolo, da Jozef Pilsudski a Lech Kaczynski, il presidente della Repubblica morto nella tragedia aerea di Smolensk nel 2010, lo stato polacco, rinato nel 1918 dopo la grande spartizione alla fine del Diciottesimo secolo, ha mantenuto, tranne che nel periodo della Repubblica popolare, due punti fermi nella sua strategia di politica estera: la costruzione di stabili alleanze con i paesi confinanti a oriente, soprattutto con l’Ucraina, contro la politica imperialista russa; il suo rafforzamento, sulla base di tali alleanze, nei confronti degli stati occidentali, in particolare della Germania, nell’ambito della politica continentale.

La fine del socialismo reale e l’ingresso nell’Ue hanno rinsaldato, nonostante alcune oscillazioni, le mire egemoniche della Polonia nell’“Europa di mezzo” posta tra l’Orso russo e l’Aquila tedesca.

Forme di nazionalismo

Tale strategia affonda le sue radici nelle due forme di nazionalismo affermatesi in Polonia in età contemporanea: quello civico, identificabile grossomodo con l’idea di patriottismo, e il nazionalismo di tipo etnico. Il primo, improntato sostanzialmente alla solidarietà e all’inclusione, in base al principio di eguaglianza, di tutti i cittadini nell’ambito dello stato-nazione; il secondo, volto ad affermare il primato di un gruppo etnico-culturale nei confronti delle minoranze nazionali nella definizione dell’ordine giuridico e politico dello stato. Entrambi i nazionalismi coltivano la stessa ambizione: rafforzare lo stato polacco e salvaguardarne l’autonomia dalle minacce che storicamente sono provenute da est e da ovest.

Nel Novecento, prima della ritrovata sovranità all’inizio degli anni Novanta, la Polonia aveva conosciuto un periodo di indipendenza tra le due guerre mondiali. La vicenda, conclusasi tragicamente, della seconda Repubblica polacca (1918-1939) è contrassegnata nei suoi primi anni di vita dal confronto tra i due nazionalismi, rappresentati dalle figure carismatiche di Josef Pilsudski e Roman Dmowski. Per Pilsudski il rinato stato polacco avrebbe dovuto svolgere una funzione egemonica nei confronti dei paesi confinanti a oriente, arrivando a immaginare forme federaliste di organizzazione politica. Sebbene la scena politica internazionale non lasciasse spazio a ideali di tipo romantico, come era stato per i patrioti polacchi ottocenteschi che si battevano per la libertà di ogni popolo, secondo Pilsudski solo uno stato in grado di catalizzare le forze contrarie alla Russia sovietica avrebbe evitato ai polacchi un destino di sottomissione.

Jaroslaw Kaczynski, attuale capo del partito di maggioranza in Polonia e vero deus ex machina della compagine governativa, fratello gemello di Lech morto a Smolensk nel 2010, ha affermato di ispirarsi solo a due figure eminenti della storia polacca: Josef Pilsudski e Karol Wojtyla. L’idea dei rapporti internazionali di Kaczynski è sostanzialmente quella risalente alla prima metà del Novecento per cui la Polonia deve allargare la sua influenza tra i “fratelli slavi” e sfruttare ogni occasione per arginare le velleità imperialistiche russe e la potenza economica e politica della Germania.

Il nazionalismo di Kaczynski, supportato dal forte richiamo alle radici cattoliche del popolo polacco, si pone in direzione contraria alle politiche di integrazione europea dietro cui si celerebbe, per molti settori dell’opinione pubblica in Polonia, nient’altro che il disegno egemonico tedesco. L’adesione di Varsavia all’Ue, alla Nato e la sua partecipazione ai vari consessi internazionali è del tutto strumentale a una politica di impianto nazionalistico derivante da una visione dei rapporti internazionali contrassegnata dall’egoismo delle nazioni, dall’imperialismo russo, dalla politica di potenza tedesca.

“Guerra ibrida” diffusa

Il nazionalismo fa ripiombare l’Europa in un contesto precedente alla Seconda guerra mondiale: di “guerra ibrida” diffusa, per utilizzare le parole dello stesso Kaczynski, e trova una sponda nei movimenti populisti e autoritari in giro per l’Europa, in particolare nell’Ungheria di Orbán.

Il partito di Kaczynski, Diritto e giustizia, intanto vola nei sondaggi, segno che la retorica nazionalista ha efficacemente sollecitato le corde di un comune sentire assai sensibile ai richiami di carattere ideologico, alla rappresentazione del nemico, della minaccia alle porte e ai sentimenti diffusi di paura che la guerra voluta da Putin ha rinvigorito.

Alcuni degli analisti geopolitici appaiono ciononostante non tener conto del peso dell’ideologia nazionalista nell’Europa centro-orientale, finendo per spiegare il disallineamento di questi paesi alla narrazione egemone occidentale con il fanatismo o con l’immaturità politica delle leadership, con la refrattarietà di alcuni popoli alle regole della democrazia moderna e della politica internazionale.

In queste prese di posizione, che sembrano sottovalutare l’identità, il retaggio storico e le aspirazioni politiche di queste nazioni, i neo nazionalisti trovano paradossalmente una conferma ai loro pregiudizi e alimento per lo spirito di rivalsa nei confronti di un occidente talvolta, anche sul piano dell’analisi politica, gravemente autoreferenziale.

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