A una prima lettura, la rumorosa campagna diplomatica, mediatica e sanzionatoria della Casa Bianca dell’ultimo mese contro la Russia e in sostegno all’Ucraina – fatta anche di irrituali pubblicazioni di informazioni d’intelligence per svelare i bluff del Cremlino – può essere interpretata come un ritorno all’internazionalismo liberal, dottrina nutrita di ideali da esportare e responsabilità di proteggere. Joe Biden difende un alleato brutalmente invaso che legittimamente aspira, un giorno, a essere ammesso nella Nato e così facendo conferma che gli Stati Uniti, dopo gli anni trumpiani del disimpegno globale, dell’introflessione, dell’interesse nazionale (inteso nel modo più circoscritto possibile) come unica stella polare dell’azione, si riprendono con il massimo clamore possibile il ruolo di perno dell’occidente e difensore dei suoi valori, messi in stato d’accusa da un autocrate militarista.

A una seconda lettura, però, si potrebbe dare un’interpretazione molto più realista della vicenda: la martellante iniziativa di Biden è stato un modo – vano, alla luce dell’invasione – per tentare disperatemente di evitare un conflitto che il presidente non vuole assolutamente combattere. Se si segue questa linea interpretativa, non può sfuggire il legame con la vicenda dell’Afghanistan.

Biden è stato criticato duramente per la disastrosa esecuzione delle operazioni di ritiro delle truppe, ma ha tenuto il punto sulla decisione politica di mettere fine alla “forever war” americana, sapendo che la maggioranza degli americani approvava il ritiro, anche se avrebbe evidentemente preferito che non finisse in quel modo indegno e violento.

Il presidente è uscito politicamente indenne da quella vicenda: l’impopolarità di cui ora gode non è stata generata dal terribile pasticcio afghano, ma da tutto il resto. Però Biden si è appuntato gli errori di gestione e comunicazione strategica, e al materializzarsi della crisi in Ucraina ha assunto l’atteggiamento vociante che gli era stato rimproverato di non aver tenuto sul ritiro da Kabul.

Sentimento isolazionista

Dopo la proclamazione delle repubbliche di Donetsk e Lugansk gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Russia e inviato truppe – già di stanza in Europa – nei paesi baltici per rispondere alla violazione del diritto internazionale. Ma la decisione di Putin di procedere con una guerra «scelta e premeditata» su larga scala costringe il presidente a spingersi in territori che avrebbe preferito lasciare inesplorati.

Nell’orientare le sue decisioni, Biden non può non tenere conto del sentimento degli americani, tutt’altro che interventista. Secondo un sondaggio di Cbs e YouGov il 53 per cento della popolazione sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero rimanere neutrali nel conflitto, mentre il 43 per cento propende per il sostegno all’Ucraina.

Ma soltanto una minima parte di quest’ultimo gruppo crede che il coinvolgimento debba arrivare fino al sostegno militare attivo. Se si entra nei dettagli, le cose si fanno ancora più complicate. Un’altra indagine di YouGov dice che il 40 per cento degli americani pensa che l’interesse del paese sia servito al meglio fermando la Russia e sostenendo l’Ucraina, ma il 33 per cento è convinto che il conflitto «non sia affare dell’America». Il 27 per cento non solo non sa da che parte stare, ma non si cura del problema.

C’è una chiara divisione generazionale nell’opinione pubblica americana. I più anziani, che hanno vissuto la Guerra fredda, tendono ancora a considerare la Russia il nemico supremo, sensibilità che non è condivisa da chi è nato poco prima o dopo il collasso dell’Unione sovietica. Al calo dell’animosità verso la Russia dei giovani non corrisponde tuttavia un maggiore interesse per il destino dell’Ucraina e per le sue aspirazioni occidentaliste. Insomma: i vecchi americani detestano la Russia molto più di quanto i giovani amino l’Ucraina.

Colombe trasversali

Sui sentimenti popolari si innesta la dimensione politica. Sul cielo di Washington oggi volteggiano più colombe che falchi. A parte alcune irriducibili voci interventiste, nel Partito repubblicano trumpizzato dominano i critici del coinvolgimento americano fuori dai confini nazionali. Il senatore Josh Hawley ha scritto una lettera al segretario di Stato, Antony Blinken, criticando lo spostamento delle truppe nell’Europa orientale e invitandolo a riconsiderare l’impegno informale assunto dagli Stati Uniti nel 2008 per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato: «Eredità di un’era passata, il sostegno dell’amministrazione Biden verso l’ammissione dell’Ucraina nella Nato impone una rivalutazione».

Quando la Russia ha iniziato a bombardare l’Ucraina, il senatore non ha perso l’occasione per castigare la «debolezza e l’indecisione» di Biden, suggerendo di «mettere in ginocchio con le sanzioni il settore energetico russo», ma il senso della posizione del senatore, condivisa da molti colleghi di partito, è che è stata l’America del post Guerra fredda e del “mondo unipolare” a creare le condizioni per il delirio avventurista di Putin.

J.D. Vance, araldo del “forgotten man” americano con il suo libro Hillbilly Elegy e candidato al Senato in Ohio ha detto, senza tema di sanzioni morali, che «non gli importa che cosa succede in Ucraina», quello che gli importa è che Biden si sta concentrando su un confine che non interessa agli americani mentre ignora quello che succede al confine con il Messico.

Tucker Carlson, il più influente anchorman di Fox News, ha detto che l’Ucraina «non è importante» e comunque sia lui sta dalla parte di Putin, cosa che ha suscitato l’indignazione della Casa Bianca e l’ammirazione del Cremlino. La televisione di stato Rt ha riproposto i suoi discorsi sottotitolati in russo.

In tutto questo, Trump ha fatto sapere che a conti fatti l’amministrazione ha fatto bene a non sostenere l’aggressività della Russia, ma allo stesso tempo ha definito Putin «un genio» per la sua furbizia tattica, qualità immensamente apprezzata da un immobiliarista di dubbia qualità che giudica il successo in ragione delle capacità di fregare l’avversario. Ma si dovrebbe già da tempo aver abbandonato la pretesa di cercare nelle parole di Trump le tracce di un qualche principio ideologico o politico.

Le responsabilità della Nato

È più significativo, invece, che la posizione di Hawley abbia incontrato favori anche al di fuori del circolo degli isolazionisti di destra. Mehdi Hasan, opinionista del network di sinistra Msnbc, ha scritto: «Odio, odio essere d’accordo con Josh Hawley, ma ha ragione». Bernie Sanders sul Guardian ha sposato la teoria della “finlandizzazione” dell’Ucraina, dicendo che «l’invasione della Russia non è la risposta; ma non lo è nemmeno l’intransigenza della Nato».

La freddezza verso l’impostazione liberal delle relazioni internazionali non ha trovato riscontri solo nella sinistra-sinistra. Molti si sono riconosciuti nelle posizioni espresse dal giornalista politico David von Drehle sul Washington Post, il cui ragionamento di fondo era: se non abbiamo alcuna intenzione di ammettere l’Ucraina nella Nato, perché non lo diciamo a Putin? Tradotto: l’America farebbe bene a dare le rassicurazioni che Putin chiede per evitare un conflitto. Alla luce dell’invasione, c’è da domandarsi se un impegno formale a chiudere le porte della Nato all’Ucraina sarebbe bastato a fermare il piano belligerante di Putin.

Thomas Friedman, decano degli analisti di politica estera del New York Times, ha riesumato un suo vecchio argomento contro la overextension della Nato negli anni Novanta e Duemila, appoggiandosi sulle parole di George Kennan, architetto della dottrina del contenimento, che ha passato gli ultimi anni della sua vita a implorare la Casa Bianca di non commettere il «tragico errore» di allargare l’alleanza atlantica sui confini della Russia. Sarebbe stato l’inizio di una nuova Guerra fredda, ammoniva Kennan, che non poteva immaginare che in pochi decenni il conflitto si sarebbe riscaldato drammaticamente.

Dietro l’ampio spettro delle sfumature del dibattito sulla politica estera si indovina la costante del disimpegno americano, figlio di una generale rilettura degli anni dell’entusiasmo democratico dopo la caduta del Muro di Berlino. Le guerre infinite lanciate da George W. Bush – che hanno prodotto infinite delusioni e disillusioni nel popolo americano – si inserivano perfettamente in questo sostanziale consenso dottrinale attorno alla missione civilizzatrice affidata agli Stati Uniti.

Questo clima di generale revisione è un fenomeno che precede la postura esplicitamente isolazionista dell’America First di Trump, ed è maturato negli anni di Obama-Biden, segnati dal “pivot to Asia”, dal garbato disinteresse per le vicende europee e dal rifiuto di appoggiare con finanziamenti e sostegno militare – e non solo con parole accorate – chi chiedeva aiuto contro gli autocrati, dall’onda verde iraniana ai manifestanti di piazza Tahrir, fino ai ribelli siriani e alle voci del Maidan. La Libia è stata l’eccezione alla regola del disimpegno, e sappiamo com’è andata a finire. Oggi nel dibattito di Washington le responsabilità prossime dell’invasione dell’Ucraina sono naturalmente attribuite a Putin; ma le responsabilità remote di questo scenario si cercano anche dalle parti di casa.

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