Possiamo discutere ore e chiederci se l’Uganda con un padre padrone – Yoweri Museveni - al potere da 37 anni, noto per metodi non propriamente ortodossi, sia da considerarsi una vera democrazia o se siamo noi i più titolati a farlo da questa parte del mondo che ha imposto per 150 anni un feroce colonialismo e secoli di schiavismo. 

Di certo vi è che il paese, uscito solo una quindicina di anni fa da un terribile conflitto ventennale che ha causato la morte di migliaia di persone, la fuga di 1,7 milioni di individui e che ha fatto conoscere al mondo l’odioso fenomeno dei bambini soldato, ora vive in relativa pace e presenta le caratteristiche di uno stato moderno, stabile, con parametri decisivi come Pil (+5,6 per cento previsto per 2023, fonte infomercatiesteri.it, ndr), scolarizzazione, sanità e infrastrutture in netta crescita.

Nessuno si sogna di dire che la popolazione ugandese si trovi ora, improvvisamente, in una specie di Città del Sole di Campanelliana memoria o che le libertà, i diritti, le risposte ai bisogni primari siano garantiti e solidi.

Né tantomeno che la gestione della cosa pubblica sia ideale, basti pensare alla repressione lamentata da oppositori politici o dalla comunità Lgbtq, alla durissime politiche imposte alle popolazioni della sub regione del Karamoja, una delle aree meno sviluppate, che, specie negli ultimi dodici mesi, hanno fatto centinaia di morti, o alle gravissime esternazioni del 48enne figlio del presidente Museveni, il generale Muhoozi Kainerugaba, per lungo tempo a capo dei corpi speciali, che crea imbarazzo alla nazione e allo stesso padre a colpi di picconate su Twitter: a ottobre, ad esempio, ha cinguettato un’imminente invasione del vicino Kenya costringendo il padre a togliergli il comando delle forze armate di terra.

I paradossi africani

Piuttosto si vuole qui sostenere che l’Uganda  è un paese pieno di contraddizioni e paradossi che ne fanno un simbolo di come da una parte l’Africa fatichi a uscire dal tunnel del colonialismo da cui si è iniziata ad affrancare solo 60 anni fa e resti impastoiata in mezzo a corruzione, conflitti, arretratezza, disastri ambientali (di cui, quasi del tutto incolpevoli, i paesi africani pagano le terribili conseguenze), dall’altra di quanto a passi rapidissimi il continente nero stia galoppando verso parametri di sviluppo, democrazia, rispetto dei diritti e cultura, che possono fare da modello sotto molti aspetti.

L’Uganda, ad esempio, è il primo paese del continente e fra i primi tre al mondo per accoglienza profughi: 1,6 milioni. Le sue politiche attive per integrarli e inserirli in percorsi educativi e lavorativi come gli altri cittadini, ne fanno un safe haven per milioni di africani di un’area enorme che va dai Grandi Laghi alla Somalia passando per Sudan e Sud Sudan.

Lo si comprende bene spingendosi a Elegu, estremo nord del paese. Al di là di un ponte di ferro trafficatissimo, c’è il Sud Sudan. Da questa parte, a una decina di metri, sorge il collection center, un punto di primissima accoglienza per i profughi che entrano senza soluzione di continuità per una serie di sfortunati eventi che colpiscono il più giovane paese del mondo da un decennio a questa parte: guerra, siccità e carestie, ora anche terribili alluvioni.

Dalla frontiera di Elegu ne entrano in media 500/600 al mese, con picchi toccati lo scorso maggio quando gli ingressi hanno sfiorato i 1.500. Li si vedono passare il ponte senza particolari problemi pur non avendo, nella stragrande maggioranza dei casi, documenti da esibire.

Il sistema

Sciamano con decine di bambini al seguito e vengono indirizzati al centro di accoglienza. «Qui li identifichiamo – spiega Francis Kirya, funzionario per la registrazione dei profughi, dipenderete direttamente dall’ufficio del primo ministro -  prendiamo le impronte, comprendiamo se ci sono bisogni speciali (donne incinte, minori, disabili, malati, ndr), offriamo loro cibo e acqua e li collochiamo in un secondo centro a una decina di chilometri da qui, dove attenderanno di sapere la loro destinazione definitiva, nel giro di massimo due settimane».

Il sistema di ingresso e identificazione immediata permette ai profughi un’entrata legale e controllata. Esattamente al contrario di quanto avviene a quei migranti che tentano di entrare in Unione europea rischiando la vita perché costretti a rivolgersi ai trafficanti e a versargli cifre enormi per l’impossibilità a ottenere visti regolari, azzerati de facto per chi viaggia da Africa o altri paesi emergenti.

Quando saranno collocati definitivamente avranno assegnato un appezzamento di terra, in alcuni casi verranno dotati di materiale per costruirsi un’abitazione, potranno muoversi liberamente nel paese esibendo un documento che viene consegnato all’arrivo dall’Unhcr, dopo la registrazione in un sistema centrale che controlla e conserva uno storico.

A questo punto, andranno a sistemarsi in uno dei tanti campi disseminati nel paese, che altro non sono che estensioni di villaggi nei quali la maggior parte dei profughi, specie quelli provenienti dalle aree rurali del Sud Sudan, riprenderà a fare una vita simile a quella che conduceva prima di fuggire e a vivere in abitazioni e contesti molto vicini ai propri.

Il tutto, in un caos apparentemente impossibile, dovuto al fatto che a volte si trovano a convivere etnie in conflitto nella propria terra di origine, che oltre a sud-sudanesi arrivano tanti congolesi, qualche somalo e che, ovviamente, la coabitazione con le comunità locali può essere causa di tensioni.

Un caos che si ricompone, però, per la possibilità che oltre un milione e mezzo di persone intravede di risistemare la propria esistenza e quella dei propri cari dopo vite travolte da disperazione e paura. Praticamente in tutti i campi sorgono scuole primarie che vanno a coprire carenze storiche dei locali sprovvisti di poli educativi e costretti a spostamenti molto lunghi e complessi.

Convivenza pacifica nell’interesse di tutti

Nei settlement ci sono poli di primo soccorso sanitario, si possono costituire commerci, micro-imprenditoria, si alleva bestiame, si coltiva, si lavora quindi e si bada più a trovare una dimensione di convenienza pacifica nel proprio interesse. Inoltre, la presenza costante di Unhcr, Ong da varie parti del mondo e le conseguenti azioni di sviluppo portate avanti in tutti i campi, avvantaggiano tutti, livellano le differenze, appianano i conflitti.

La cooperazione italiana ha scelto di radicarsi nella realtà dei campi. «Tra le attività che portiamo avanti nel progetto finanziato dall’ Aics (Agenzia Italiana Cooperazione allo Sviluppo) nel Distretto di Adjumani (19 campi, per un totale di 280mila profughi circa, ndr), quelle che sicuramente hanno avuto un impatto più diretto – dice Deborah Piccinno, project manager della ong italiana Cooperazione e Sviluppo - sono la perforazione di tre pozzi, l’installazione di due bacini per il bestiame e di un tank da 36mila litri di acqua. La posizione individuata per la perforazione dei pozzi è stata frutto di un lungo processo di dialogo e confronto con le comunità di riferimento e le autorità, e ha contribuito a far ricadere la decisione finale su posizioni strategicamente importanti. Pertanto, se da un lato ne beneficeranno le comunità dei profughi, dall’altro lato ne usufruiranno anche gli insediamenti locali che sono contigui ai campi».

Il sistema, tra i limiti e le difficoltà che un’accoglienza di oltre 1,5 milioni di persone imporrebbe in qualsiasi altra parte del mondo, funziona. E dimostra che occuparsi di gente che scappa da disastri, oltre che un dovere morale, conviene.

Attorno ai profughi si è costituito un indotto enorme che genera affari e fa circolare soldi. I finanziamenti della comunità internazionale, degli organismi Onu, delle ong presenti sul territorio contribuiscono al bene dei profughi e al tempo stesso al progresso del paese.

Un metodo che andrebbe studiato a Bruxelles che abdica alla possibilità di rispetto dei diritti così come a quella di fare soldi, preferendo pagare stati “campioni” di umanità come Turchia (sei miliardi di euro) e Libia, per gestire la questione migranti.

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