Tel Aviv che vuole trasferire i gazawi in massa, gli Usa che inviano i criminali in altri paesi. Progetti spaventosi, che alimentano conflitti e instabilità. L’Europa si limita a mugugnare
Avanza con Donald Trump e con Benjamin Netanyahu la suggestiva idea che esista un’umanità-pattume scaricabile in stati-pattumiera, cioè nazioni con una statualità inconsistente, incapaci di opporre resistenze, non molto più che meri spazi, carcasse alla mercé degli avvoltoi.
Si tratta di un’evoluzione del pensiero coloniale che già si era affacciata in Europa in forme radicali (per esempio il nazismo in prima battuta aveva progettato di deportare gli ebrei in Madagascar, all’epoca considerata la terra più malsana del pianeta) e non del tutto estranea a più blandi esperimenti in cantiere presso la Ue.
L’immaginifico presidente americano si appresta a spedire immigrati clandestini in Libia, che non ha un governo avendone due, uno dei quali controllato da una famiglia, gli Haftar, con la quale la Cia ha una certa consuetudine.
Il premier israeliano pensa più in grande: si propone di tormentare i palestinesi di Gaza facendone morire piccole quote giornalmente di stenti e di bombe, finché i sopravvissuti non vedranno l’esilio come una liberazione.
Il vuoto europeo
In entrambi i casi l’Europa al solito mugugna ma nel concreto pare incapace di contrastare. Eppure non si può dire che la faccenda non la riguardi, non solo perché i ‘trasferimenti’ di umanità-pattume fanno strame dei suoi valori fondativi, ma anche per considerazioni pratiche: a Gaza o in Libia dove altro potrebbero cercare rifugio gli espulsi se non sulla sponda europea del Mediterraneo? E non è questo, un’immigrazione di massa e incontrollata, l’incubo dell’Unione europea?
Ci piacerebbe considerare l’idea dei “trasferimenti” come il parto di due menti deboli, obnubilate da delirio di onnipotenza, ma così non è. La politica di Trump sull’immigrazione clandestina è l’unico terreno nel quale la popolarità del presidente non sia in caduta. E l’idea di “trasferire” i gazawi altrove è approvata dalla maggioranza del parlamento israeliano. Ciò che chiamiamo la “volontà popolare” a suo modo è rispettata: ma è questo l’unico requisito di una democrazia?
Se Israele è «l’unica democrazia del Medio Oriente, per quanto ammaccata», come garantisce un editoriale del Corriere della sera, allora dobbiamo concludere che le “ammaccature” ormai hanno deformato il profilo dello stato di diritto liberale, al punto che in Europa non riusciamo più a distinguerlo da una democratura, cioè da un sistema misto quale il regime in vigore in Turchia o in Ungheria.
Stiamo scivolando su quella china? Se una pulizia etnica risulta appena un’ammaccatura, punire con la deportazione il diritto d’opinione se esercitato da stranieri, come ormai accade in stati e università americane, è solo un graffio. Ma ai nostri carrozzieri vorremmo ricordare come funziona con le ammaccature: prima o poi la repressione dei non nativi si estende ai nativi, e quando accade è troppo tardi per correre ai ripari.
Gli ottimisti obietteranno che i progetti di Trump e Netanyahu sono destinati a fallire. Gli sventurati che sognavano New York e si ritroveranno schiavi di una banda libica si conteranno in poche centinaia, non fosse altro perché il clamore suscitato suggerirà prudenza perfino a Trump.
Quanto al governo Netanyahu, la sua dichiarata ricerca di stati falliti in cui scaricare i gazawi finora non ha prodotto risultati (al più il Sud Sudan). Resta l’opzione radicale: ammassare i palestinesi nel sud della Striscia (l’operazione è in corso) e poi sfondare il confine con l’Egitto, così da “favorire” l’esodo (“volontario”, ci mancherebbe: le democrazie non deportano). Poi occorrerebbe sfondare anche il confine con la Giordania, onde svuotare il West Bank (“Giudea e Samaria”, in democratese biblico).
Prudenze americane
Tutto questo probabilmente comporterebbe una grande guerra mediorientale, che Israele potrebbe affrontare solo se gli Stati Uniti l’assecondasse totalmente. Ma per quanto l’amministrazione Trump sia spericolata in patria, lo è assai meno all’estero: improbabile che sia disponibile a infognarsi in un conflitto ampio e di lunga durata. Semmai tende a chiamarsi fuori, con notevole sconcerto israeliano. Ha siglato una pace separata con gli Houthi dello Yemen, decisi a proseguire i lanci di missili su Israele finché non si ritirerà da Gaza.
Prospetta all’Iran un accordo per il quale gli ayatollah potranno sviluppare il nucleare per uso civile (con la tecnologia idonea il passaggio dal nucleo civile al nucleare militare è questione di mesi). Mantengono buoni rapporti con la Turchia di Erdogan, il vero competitor di Israele in Medio Oriente. Infine, non hanno obiettato quando la Cina ha condotto manovre militari in Egitto, con voli “ammonitori” di caccia cinesi a ridosso di Gaza e l’impiego di un gigantesco aereo-spia.
Se ignoriamo i proclami da gradasso di Trump destinati alla sua audience e andiamo alla sostanza, troviamo tentativi americani di un parziale disimpegno dalle conflittualità mediorientali e nessuna propensione a lasciarsi coinvolgere in attriti militari. Negli spazi da cui gli Stati Uniti si ritirano, si infilano Cina e Turchia, tutto sommato i veri beneficiari della politica estera israeliana. Il Medio Oriente sta cambiando e sarebbe ora che Italia e Unione europea ne prendessero atto. Netanyahu e la destra israeliana non solo non ci sono amici, ma il loro espansionismo ci prospetta solo guai.
La guerra di Gaza, l’aggressività dei coloni nel West Bank, i bombardamenti sistematici dell’esercito siriano che privano Damasco dell’unico strumento di cui dispone per sottrarre il paese al rischio di implodere in una mischia etnica, alimentano non solo l’instabilità a ridosso dell’Europa ma anche la diffusione del terrorismo islamico e l’immigrazione verso la Ue.
Converrebbe anche a Roma dotarsi di una politica estera più propositiva, non fosse altro che per smentire lo scomodo sospetto che ci vuole di fatto complici, se non altro per ignavia, di una ripugnante pulizia etnica. Tifiamo per i piani di pace arabi, quelli seri però rifiutati da Israele.
Sarà colpa delle resistenze opposte da un vasto segmento del parlamento (soprattutto nella destra, ma non solo) e dal pilatismo praticato da molto giornalismo, non siamo né tra i sei Paesi europei che intimano al governo Netanyahu di non procedere all’espulsione di palestinesi e all’annessione di territori (Spagna, Irlanda, Norvegia, Slovenia, Islanda, Lussemburgo), né tra quelli che discutono se riconoscere lo stato palestinese (tra questi Francia e Gran Bretagna). Rispetto ad una vicenda che orienterà la storia di questo secolo, l’Italia semplicemente non è.
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