«Oggi più che mai il multilateralismo è fondamentale». Così il comitato norvegese che assegna il Nobel per la pace ha motivato la sua scelta. Dal ventaglio dei 318 candidati, tra i quali oltre duecento personaggi (l’attivista per il clima Greta Thunberg era tra i favoriti) e più di cento organizzazioni, esce vincitore il World food programme. È il ramo delle Nazioni unite che distribuisce cibo e assistenza in zone in difficoltà e situazioni di emergenza, e si trova a Roma, capitale de facto delle organizzazioni internazionali che si occupano di agricoltura (qui hanno stabilito la sede pure Fao, agenzia Onu per alimentazione e agricoltura, e Ifad, fondo internazionale per lo sviluppo agricolo). La scelta di Oslo va dichiaratamente contro il tentativo dell’amministrazione Trump di frantumare le organizzazioni internazionali e un certo ordine globale. Proprio un anno fa, nel discorso di apertura all’assemblea generale, il presidente sosteneva che «il futuro appartiene ai patrioti, non ai globalisti», e invocava l’arretramento delle istituzioni multilaterali, Onu inclusa. «Il discredito delle istituzioni internazionali è un effetto del populismo e delle sue istanze nazionaliste», dice la presidente del comitato del Nobel per la pace, Berit Reiss-Andersen: «Spero che il premio sia un segnale chiaro ai governi».

Certo, se fosse stata premiata l’Organizzazione mondiale della sanità, come ipotizzava anche il Time, lo smacco a Trump sarebbe stato più evidente: questa estate, nel pieno di una pandemia, la Casa Bianca ha notificato l’uscita dall’organizzazione. L’Oms rimane priva di un membro fondatore, e soprattutto dei suoi soldi: nel 2019, gli Usa hanno contribuito con oltre 550 milioni di dollari, poco meno del venti percento del bilancio. Il comitato premia non l’agenzia rimasta orfana degli Usa, ma piuttosto una di quelle che tuttora mantengono la più forte impronta statunitense, sia nei finanziamenti che nella direzione: dal 2017, a capo del Wfp c’è un uomo di Trump, il repubblicano David Beasley, ex governatore della South Carolina. Gli Stati Uniti sono il principale finanziatore dell’agenzia (l’hanno dotata di quasi tre miliardi di dollari nel 2020, e nel 2015, pre-Trump, ne davano circa due), e anche per questo c’è di solito un americano a guidare il Wfp, nato negli anni Sessanta proprio su spinta di Washington. «Gli Usa non erano soddisfatti delle organizzazioni già esistenti: non le reputavano efficienti né allineate ai loro interessi, su temi come le sementi ibride», dice Daniele Archibugi, teorico delle relazioni internazionali. «Il Wfp nasce con il mandato chiaro di riciclare in aiuti il surplus agricolo americano», da allora migliora la sua capacità operativa. «Se organizzazioni come questa non dovessero più ricevere supporto finanziario, ne deriverebbe una crisi inconcepibile», ha detto Reiss-Andersen. Visto che l’Oms ha perso gli Usa, Oslo prova a salvare almeno quel multilateralismo che a Trump non dispiace troppo.

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