Hanno costruito la terza più grande centrale idroelettrica del mondo nel cuore dell’Amazzonia. Sapendo i danni diretti e indiretti che avrebbe provocato, su ambiente e persone. E sapendo in anticipo che avrebbe funzionato male. Diciamo “hanno” perché le responsabilità sono molteplici: brasiliani e investitori stranieri, politici e tecnici, governi di sinistra e governi di destra. Sognata dal regime militare negli anni Settanta, approvata sull’onda del boom economico nel governo Lula, la centrale di Belo Monte è un’accozzaglia di visioni distorte. La prima delle diciotto turbine era stata inaugurata da Dilma Rousseff (tecnocrate di sinistra), l’ultima da Jair Bolsonaro (negazionista di destra). Entrambi entusiasti del progetto. Ora il conto è arrivato. Per aver senso economicamente, come aveva previsto la quasi totalità della comunità scientifica in Brasile, Belo Monte è costretta a far danni. Ne fa tanti. E spesso non funziona a regime nemmeno così.

La natura

Partiamo dai limiti imposti dalla natura. Belo Monte è l’unica centrale idroelettrica di queste dimensioni lungo un fiume amazzonico, lo Xingu, uno dei grandi affluenti del Rio delle Amazzoni. Per definizione questi corsi hanno portate d’acqua assai diverse nel corso dell’anno, tra la stagione secca e quella delle piogge. Infatti la centrale entra nella classifica dei colossi dell’energia solo con la sua capacità di generazione teorica, e cioè 11.233 megawatt. In realtà si ferma in media a 4.500 megawatt, perché durante quattro o cinque mesi all’anno è praticamente ferma, l’acqua del bacino è troppo bassa. Nei primi anni Duemila il Brasile soffrì serie crisi energetiche, con blackout e razionamenti. All’epoca si disse che le abbondanti acque dell’Amazzonia erano l’unica soluzione per sostenere lo sviluppo del paese. Pesci e indios venivano dopo. Belo Monte, poi, avrebbe potuto fornire da sola addirittura il 10 per cento di tutta l’elettricità consumata in Brasile. Con la matrice pulita dell’idroelettrico (e questo è vero).

La strenua resistenza del mondo ambientalista fece ridimensionare il progetto iniziale, in termini di area sommersa, sfollamento di persone, danni alla foresta e altro. Impose costi di compensazione al concessionario. E pose alcuni paletti importanti sull’uso del fiume Xingu. Ma quel che è rimasto è stato sufficiente a provocare quello che un pubblico ministero di Altamira ha battezzato un “ecocidio”. Altamira è la città prossima alla diga. È la capitale dell’emergenza Amazzonia, qui attorno succede di tutto. Oltre ai danni di Belo Monte ci sono i soliti incendi, l’avanzata degli allevamenti, il rischio di scomparsa di popolazioni indigene, un progetto per aprire una gigantesca miniera d’oro della canadese Belo Sun. Già nel lontano 1989, prima ondata di interesse mondiale per il destino della foresta pluviale, Altamira venne scelta per far arrivare 600 indios e centinaia di giornalisti da tutto il mondo in un grande evento di denuncia. Anfitrione il cantante inglese Sting, una specie di Greta dell’epoca. A quei tempi era un paesotto, oggi la città conta 120mila abitanti, è sporca disordinata e violenta.

Cos’è questo ecocidio? L’allagamento di 500 chilometri quadrati di foresta e la rimozione di alcune comunità non sono nemmeno i problemi principali: sono un prezzo da pagare in tutte le costruzioni di bacini e dighe. È che sta saltando tutto l’ecosistema della “Volta Grande” dello Xingu, come è chiamata la giravolta nella foresta che il fiume compie prima di proseguire il suo cammino. Dal 2015 l’80 per cento dell’acqua trattenuta dalla diga viene deviata verso un canale artificiale di 20 chilometri lungo il quale ci sono le turbine che producono elettricità. Con questa operazione, un tratto di 130 chilometri di fiume che da migliaia d’anni conviveva con le normali alternanze di piena e secca è sottomesso a una riduzione continua di acqua, che ha già fatto sparire decine di specie di pesci, tartarughe e piante, e ha messo a rischio l’alimentazione di migliaia di famiglie che vivono in 25 villaggi. Tra loro molti indios. Per alcuni studiosi il danno è prossimo all’irreversibilità, e colpirà a valle dello Xingu una porzione assai più consistente di foresta.

La sconfitta degli ambientalisti

Che la portata del fiume sarebbe stata modificata dalla diga lo si sapeva dal progetto, naturalmente. E la questione faceva parte dei protocolli di autorizzazione ambientale. Si arrivò a decidere che i livelli delle acque (quanto trattenere nei bacini e deviare, quanto lasciar scorrere nell’alveo naturale) sarebbero stati decisi di comune accordo tra l’azienda concessionaria Norte Energia e l’Ibama, l’ente federale per la protezione dell’ambiente. Sembrò un buon compromesso seguire un cosiddetto “idrogramma” da aggiornare giorno per giorno. Già in partenza la Norte Energia riuscì a strappare livelli convenienti alla propria produzione, e dannosi al fiume. Ora che tutte le turbine sono in operazione, dopo un avvio graduale durato anni, e l’azienda vorrebbe lavorare a tutto vapore, il problema è esploso. Nelle scorse settimane l’Ibama aveva imposto alla Norte Energia di liberare più acqua, per recuperare livelli decenti allo Xingu, già che oltretutto la stagione è particolarmente avara di piogge. L’azienda ha resistito e alla fine ha vinto il braccio di ferro, anche grazie al fatto che sotto il governo Bolsonaro tutto quel che riguarda la protezione dell’ambiente è stato indebolito, soprattutto in ambito federale. Risultato: verranno fatti scivolare 1.600 metri cubi di acqua al giorno in un’ area che secondo natura, a febbraio, dovrebbe riceverne più di 14.000. È sceso in campo anche il ministero dell’Economia, sostenendo che qualunque cambiamento nella gestione delle acque dello Xingu «può mettere a rischio la ripresa economica del Brasile dopo la crisi pandemica». Dice una nota: «La riduzione media di 1.500 megawatt di produzione che sarebbero determinati dalle richieste dell’Ibama obbligherebbe il settore a comprare energia di riserva, e il costo sarebbe spalmato su tutti i consumatori». Un buon ricatto. Ma la partita principale è un’altra. Il governo Bolsonaro ha in programma la privatizzazione della Eletrobras, l’azienda pubblica che detiene poco meno del 50 per cento di Belo Monte. La ridotta redditività a causa di limitazioni ambientali nonché la mancanza di mani libere sulla gestione della grande centrale sono fattori di deprezzamento, a causa dell’insicurezza giuridica per gli investitori. Alla fine, insomma. dopo aver perso la battaglia per impedire la nascita di Belo Monte, il fronte ambientalista sta perdendo quel poco che aveva conquistato per tenerla d’occhio. Come avevano previsto i più lungimiranti, la centrale funziona solo sottraendo quanta più acqua possibile alla foresta. Tipica situazione lose-lose.

La Volta Grande del fiume Xingu è ancora, chissà per quanto, un paradiso di integrazione tra uomo e natura nell’Amazzonia. Due tribù indigene, i Yudjá e i Arara, convivono con varie comunità rivierasche, arrivate nei decenni di colonizzazione. Le attività principali sono la pesca e la piccola agricoltura di sussistenza. Oggi tutta questa gente sta imparando a mangiare con le scatolette e i precotti forniti dalla Norte Energia, come misure di “compensazione” per i danni provocati al loro ecosistema. Abbandona campi e acque per salire sugli autobus che portano ad Altamira, per finire a vivere in una favela urbana e dedicarsi al commercio informale o all’accattonaggio. Si mette in fila negli ambulatori, sempre finanziati dagli uomini della centrale, per curare malattie che non avevano mai visto prima, legate al cambio di alimentazione e stile di vita. «Sistematica violazione dei diritti umani a Belo Monte»: con questa motivazione, il fondo sovrano della Norvegia, uno dei più grandi del mondo e il principale contribuente in Amazzonia, ha escluso la Eletrobras dal suo portafoglio di investimenti, per decisione del consiglio di etica. Sulle tragedie nella foresta il mondo finanziario non resta a guardare impassibile, anche se c’è da far soldi.

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