La Turchia, una delle 20 economie più grandi del mondo, sta cercando la ricetta per mantenere in vita quel miracolo economico che ha tratto fuori dalle povertà milioni di suoi abitanti e consentito di quadruplicare dal 2003 al 2013 il reddito pro-capite da 2.500 dollari a 10mila dollari. Politiche economiche vincenti che Erdogan ha ereditato nel 2002 dal ministro delle Finanze dell’ultimo governo laico di Ankara, Kemal Derviş, 74 anni, morto l’8 maggio scorso a Washington.

Derviş, funzionario delle Nazioni Unite, nato a Istanbul, cosmopolita (parlava turco, tedesco, inglese e francese), è stato l’artefice di quelle riforme che hanno consentito il decollo dell’economia turca, fino a quel momento un cliente fisso del Fondo monetario internazionale a cui chiedeva nuovi prestiti per ripagare debiti precedenti. Kemal Derviş, chiamato ad affrontare una drammatica crisi economica con l’inflazione a due cifre, stabilizzò la situazione ricapitalizzando le banche e dando poteri di controllo alla banca centrale, varò riforme per favorire la concorrenza nel mercato.

Un’impresa che gli alienò molte simpatie e creò molti nemici sia tra i nazionalisti che a sinistra (pur essendo lui un socialdemocratico) e che lo costrinse, nel periodo più difficile della sua opera riformatrice, a indossare negli eventi pubblici, un giubbotto anti-proiettile per timori di attentati. Chi portò avanti le politiche liberiste di Derviş nel nuovo governo filo-islamico di Erdogan nel 2003 fu Ali Babacan, che con Ahmet Davutoglu, portò l'Akp, il partito islamico di maggioranza relativa, su posizioni favorevoli al mercato e filo-occidentale in politica estera.

Poi dal 2013 con la repressione della rivolta ambientalista di Gezi Park e dopo lo sventato colpo di stato del 2016, la svolta autoritaria si è fatta più evidente e il paese della Mezzaluna sul Bosforo si è allontanato dall’Occidente per avvicinarsi sia alla Russia che alla Cina, in un difficile gioco di equilibri tra Est e Ovest.

Il sogno dell’opposizione

Una delle parole più comuni usate dall'opposizione è «restaurare», ha scritto sul New York Times Cihan Tugal, professore di sociologia all’Università della California a Berkeley e autore del libro: La caduta del modello turco: come le rivolte arabe hanno distrutto il liberalismo islamico. I sei partiti che costituiscono la coalizione che sostiene Kemal Kılıçdaroğlu vorrebbero tornare a quel periodo d’oro realizzato da Kemal Dervis prima della sua sconfitta e poi portato avanti da Ali Babacan e Ahmet Davutoglu, ex membri di alto profilo dell’Akp e oggi passati all’opposizione.

Ma il ritorno al passato degli anni ’20 è semplicemente impossibile, ha scritto Tugal. Perché il mondo è cambiato e il clima globale è meno favorevole al tipo di economia di libero mercato, basata su investimenti esteri diretti, alti tassi di interesse e liberalizzazione del commercio, del primo decennio al potere dell'Akp. Senza contare che l’Ue, maggior partner commerciale di Ankara, ha frenato sull'adesione della Turchia e oggi guarda con maggior interesse all’Ucraina.

Il cambio di rotta dell’Akp

Dieci anni fa l’Akp ha deciso l’allontanamento di Babacan (e poi di Simsek), sostenitori delle politiche favorevoli al mercato e del premier Davutoglu nel 2016 poiché il partito Akp, al governo non trovava più redditizio un approccio filo occidentale. Con la crescita dell'influenza russa e cinese nella regione, l'Akp ha deciso di giocare su più tavoli. Anche in economia l’Akp, il partito di Erdogan, ha cercato nuove strade varando un mix di politiche orientate al mercato e stataliste, mantenendo sempre una robusta base di appoggio popolare.

Le sei forze di opposizione, invece, non sono riuscite, anche a causa della loro disomogeneità interna, a formulare una chiara alternativa economica limitandosi a constare il problema dell’aumento dei prezzi e in particolare delle cipolle.

O come ha promesso Kemal Kilicdaroglu, di ritornare a un periodo di crescita e ridistribuzione dei redditi ripercorrendo vecchie strade per attrarre in un paese dal pesante deficit delle partite correnti (importa più di quanto esporti) gli investimenti diretti esteri, in un momento in cui questi flussi sono in declino in tutto il mondo. Inoltre Kilicdaroglu non ha nascosto la sua opposizione ai progetti statali dell'Akp, come la produzione di automobili e navi. Progetti megalomani?

Forse, ma spesso non basta restaurare, bisogna innovare e saper coinvolgere nel progetto il maggior numero di potenziali elettori.
 

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