Hila Fenlon ha 44 anni e vive a Nativ Haasara, un moshav o comunità agricola a pochi metri (e due muri) dalla striscia di Gaza. Le case dei mille abitanti locali sono su un’altura si da cui si vede Beit Hanoun, la cittadina più settentrionale dell’enclave palestinese. Quando c’è un’escalation coi miliziani di Gaza la strada che conduce verso sud e finisce al valico di Erez, dove si entra nella Striscia, viene chiusa dall’esercito, e residenti e giornalisti possono raggiungere la località soltanto attraverso una stradina sterrata. I momenti di tensione sul fronte meridionale da questi parti si vivono al quadrato: le esplosioni colpiscono a caso e causano rumori assordanti. Ma questa escalation, che finora ha fatto 7 morti in Israele e 83 morti a Gaza, fra cui diversi leader di Hamas, secondo Fenlol è la peggiore di sempre.

«Vivo qui da vent’anni, ricordo ancora il primo razzo lanciato dalla Striscia in Israele. Era il 9 Aprile 2001, ero incinta di nove mesi, e cadde nelle serre in cui lavoro da bracciante. Da allora ne ho viste di tutti i colori, ma mai come in questi giorni», dice al telefono mentre sullo sfondo si sente il rumore delle esplosioni. «I razzi impiegano solo 3-4 secondi a raggiungere Nativ Haasara dalla Striscia, il che significa che il sistema anti-missilistico Iron Dome non fa a tempo a entrare in azione», spiega la contadina israeliana, che politicamente ha posizioni di sinistra. «Ieri hanno colpito un’automobile che viaggiava su una strada qua vicino, uccidendo una persona e ferendone due gravemente. Oggi stiamo lavorando a ripulire il supermercatino locale, che è stato colpito da un razzo. È intollerabile che un’organizzazione terroristica pensi di poter cominciare a sparare sui civili quando gli pare».

Dall’altra parte

Dall’altra parte della frontiera, pochi chilometri più a sud, il cinquantottenne palestinese Hassan Jabber è rinchiuso in casa nel campo profughi di Bureij, nell’est della striscia di Gaza. Circa il 70 per cento dei palestinesi di Gaza sono profughi del 1948, e malgrado ormai vivano in città edificate, continuano a considerarle dei campi profughi. Dice Jabber: «Ieri notte hanno bombardato una casa a 100 metri da me, era vuota. Tre ore fa ne hanno colpite altre due, in una sono morte due persone e cinque sono rimaste ferite, nell’altra cinque sono rimaste ferite. Quando ci sono gli attacchi i bambini cominciano a piangere e lasciarsi prendere dal panico. La cosa grave è che in occasione degli ultimi attacchi gli israeliani non hanno avvertito. Di solito telefonavano ai civili o ai vicini per metterli in guardia, o lanciavano bombe deboli di avvertimento. Ma ora non lo fanno più. Oggi sarebbe l’iftar (la fine del Ramadan, ndr), ma non stiamo andando a trovare nessuno». Secondo Jabber i miliziani della striscia sono soddisfatti dell’andamento del conflitto: fonti della sicurezza israeliana d’altronde confermano che lo stato ebraico è stato colto di sorpresa dalla qualità e quantità dei missili lanciati.

Gli scontri a Gerusalemme

Alla domanda come mai tutto sia cominciato, Jabber non ha dubbi: «Gerusalemme è troppo importante nella nostra religione, gli israeliani hanno fatto un grave errore ad entrare nelle moschee della Spianata, è normale che tutti gli arabi abbiano reagito». Già, perché Gaza non è l’unico fronte di queste giornate di guerra. Ancora più grave è la balcanizzazione delle cittadine israeliane all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti dello stato, sulla scia delle violenza di Gaza. Aggressioni gratuite su base etnico-religiosa hanno fatto centinaia di feriti da Akko a Haifa, da Bat Yam a sud di Tel Aviv a Jaffa, a Lod e in numerose altre località di Israele. Ormai si parla di guerra civile: il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato il dispiegamento dell’esercito nelle città e ha autorizzato la detenzione amministrativa. Alla luce della situazione Naftali Bennett, leader dell’opposizione che stava per costruire un governo alternativo a Bibi con l’appoggio degli arabi, ha annunciato che tornerà al tavolo dei negoziati con la destra di Netanyahu.

I pattugliamenti ad Haifa

A Haifa, uno dei luoghi degli scontri fra arabi ed ebrei israeliani, raggiungiamo Shahin Nasser, trentaquattrenne traduttore arabo-israeliano. È abituato a vivere e lavorare con israeliani di religione ebraica da una vita, e parla un perfetto ebraico. «Ci siamo organizzati in due-trecento cento ragazzi arabi di Haifa per pattugliare le strade della città, ed evitare che gli hooligan fascisti israeliani aggrediscano palestinesi indifesi», dice. «La polizia di Israele non sta facendo il proprio mestiere, quello di proteggere i cittadini israeliani, ma piuttosto sta difendendo le squadracce di estremisti che vengono per menare cittadini indifesi», dice.

«Cantano “morte agli arabi” e ci sentiamo minacciati. A Haifa abbiamo sempre vissuto insieme, è una città multiculturale. Ma ieri hanno ferito tre persone e dobbiamo difenderci, cercando di non scontrarci con la polizia”. Alla domanda se ricordi una situazione così grave dice: «Una situazione del genere si era vista soltanto durante la seconda intifada, furono le mie prime manifestazioni».

 

© Riproduzione riservata