Esattamente quattro anni fa, dopo la sconvolgente vittoria di Donald Trump alle elezioni, ho scritto un articolo che ha sollevato un polverone. Intitolato “la fine del liberalismo dell’identità”, era scritto sull’onda della rabbia. Come molti altri americani, mi sentivo tradito da un Partito democratico che non solo non era riuscito a conquistare la Casa Bianca per imporre la propria agenda politica, ma non era stato in grado di proteggere gli Stati Uniti e il mondo da una minaccia umana. Non avevo ancora idea di quanto le cose sarebbero peggiorate.

Un fattore significativo nella sconfitta dei democratici, sostenevo allora, era uno stile politico che ha impedito loro di sviluppare una visione ambiziosa del futuro dell’America, una visione in grado di coinvolgere persone di tutti i tipi. Sembra in verità che dagli anni Ottanta i liberal americani abbiano rinunciato totalmente ad avere una visione. Hanno spostato le energie dalla politica del partito alla politica dei movimenti, concentrando l’attenzione in particolare sulle minoranze e i movimenti intorno all’identità di genere.

Benché quel passaggio fosse moralmente comprensibile, ha reso più difficile per i liberal parlare del bene comune che tiene insieme i vari gruppi. Ha anche indotto l’abitudine di dimenticarsi di ampie fette di elettorato che non rientravano nella narrazione delle identità della sinistra liberal, come i bianchi della working class e gli evangelici, e questi ultimi sono circa una quarto della popolazione adulta. Se vuoi citare i vari gruppi che compongono l’America, li devi citare tutti, altrimenti dai all’oppositore un’opportunità da fruttare, cosa che Donald Trump ha fatto con grande successo.

Da partito a movimento

Questa mentalità movimentista si è dimostrata suicida dal punto di vista elettorale. Dagli anni Ottanta abbiamo assistito a un massiccio trasferimento di potere politico, in molte parti del paese, dai democratici a un Partito repubblicano sempre più radicale. La conseguenza più perversa di ciò è stata che, mentre i democratici cedevano terreno dal punto di vista geografico ai repubblicani, in particolare negli stati e nei governi locali, hanno perso la capacità di proteggere gli stessi gruppi identitari che dicevano di voler proteggere. In particolare il loro diritto di voto. Più di metà degli afroamericani, per esempio, vivono nel profondo sud repubblicano. Eppure i democratici non hanno voluto imparare la lezione ovvia che questi sviluppi insegnavano: non puoi aiutare nessuno se non hai potere istituzionale. E non puoi acquisire quel potere senza una visione che trascenda l’affiliazione ai vari gruppi. I democratici hanno avuto quattro anni per meditare sulla loro sconfitta, mentre l’America si sgretolava intorno. Ora che le speranze di una vittoria a valanga dei democratici sono svanite e la sconfitta è ancora nel regno delle possibilità, si tratta di capire se hanno tratto le lezioni giuste dalla loro performance elettorale. Gli indizi sono decisamente ambigui.

La buona notizia è che i politici democratici, i funzionari di partito e i finanziatori hanno concentrato le energie sul bene comune e sulla conquista del centro moderato. Hanno visto che nelle elezioni di midterm del 2018 il partito ha conquistato seggi soprattutto con candidati centristi che hanno costruito una base nelle aree suburbane, soprattutto fra le donne bianche. Si sono anche resi conto che sebbene le minoranze siano una parte importante di quell’elettorato, molti dei loro elettori erano culturalmente conservatori. Gli afroamericani, soprattutto i più anziani, sono più inclini ad avere delle riserve sul movimento lgbt. Una parte significativa degli ispanici è contraria all’aborto per via della loro fede cattolica e hanno una concezione piuttosto tradizionale del matrimonio e dei ruoli di genere. Questo sembra essere stato compreso, perché in queste elezioni i candidati democratici hanno per lo più evitato temi culturali e identitari (a parte la riforma della polizia), nonostante gli sforzi dei repubblicani e di Fox News di portarli in quella direzione. Joe Biden e Kamala Harris hanno fatto una campagna vecchia scuola basata sulle politiche, sulle competenze e sulla decenza, e hanno scaltramente evitato di rappresentare il Partito democratico come una «coalizione arcobaleno» composta di gruppi diversi. È un buon auspicio per il futuro.

La sinistra culturale

La cattiva notizia è che la sinistra culturale è ancora più concentrata sulle identità di quanto non fosse nel 2016. In parte la colpa è degli anni di Trump al governo. Quello che allora chiamavamo genericmaente “populismo” è degenerato nella forza reazionaria dei bianchi poco istruiti con una loro agenda identitaria. È molto invitante combattere il nemico con le sue stesse armi.

Ma durante la scorsa estate altri eventi hanno rivelato quanto sia aumentata la distanza tra l’ambizione e le tattiche dei democratici impegnati in politica e quelle della sinistra culturale. Penso alle élite che hanno la propria base elettorale nelle università, nei media, a Hollywood, nel settore dell’editoria e della pubblicità, nel mondo dell’arte, nelle istituzioni filantropiche. Il discorso riguarda anche giovani attivisti il cui concetto di impegno politico prende spunto dall’identità, dal confronto e dai social media.

È stata questa sinistra culturale a promuovere la cosiddetta “Great Awokening” sulla questione razziale negli ultimi cinque anni. Non mi riferisco a politiche economiche e sociali intese a migliorare la condizione degli afroamericani, che sono un dovere storico. Né delle protezioni legali per le persone gay, lesbiche o trans. Penso invece al concentrarsi su simboli e gesti che dimostrano la fervente adesione a opinioni “illuminate” su questo tipo di questioni.

Consideriamo le conseguenze delle prime, impressionanti manifestazioni seguite all’assassinio di George Floyd a maggio. Erano ampi, pacifici raduni nelle metropoli e nelle cittadine in tutti gli Stati Uniti (e nel resto del mondo). Ma molto presto la situazione è degenerata, trasformandosi in un conflitto sui simboli. Innumerevoli istituzioni culturali si sono sentite costrette a fare affermazioni sull’uguaglianza razziale e alcuni direttori si sono dimessi dopo aver dato segni di pentimento.

Molte aziende si sono accodate e hanno annunciato di voler richiedere ai dipendenti di seguire corsi “anti razzisti” tenuti da autoproclamati e ben pagati “consulenti”. Su Twitter si sono viste aggressioni verso chi sembrava avere pensieri impuri a tal proposito. Sono stati licenziati redattori che hanno pubblicato articoli controversi, mentre un ricercatore ha perso il posto per aver messo in circolazione uno studio accademico sulle attitudini legate all’etnia. Quella che era iniziata come un’estate di solidarietà civica è finita in battibecchi sulla “cancel culture” che non hanno contribuito in nessun modo a migliorare la vita degli afroamericani che non appartengono all’élite.

Alcune delle forze più attive dietro questa svolta sbagliata sono stati i media liberal, che hanno preso brutte abitudini durante la presidenza Trump. Convinti di non esser stati abbastanza duri con lui nelle elezioni del 2016, i giornalisti si sono abituati a smascherare le “bugie”: e ce ne sono state molte durante la presidenza. Ma la distinzione tra bugie dimostrabili come tali e differenze d’opinione si è dissolta in questo processo. Lo standard di neutralità nel giornalismo è stato buttato a mare nel nome di una non meglio definita “moral clarity”.

Riscrivere il passato

In queste iniziative è stata determinante la pressione editoriale sui giornalisti affinché enfatizzassero la dimensione razziale dei loro articoli e avessero un ruolo attivo nella riscrittura della narrativa nazionale.

Ad esempio, nel 2019 il New York Times ha lanciato The 1619 Project, a simboleggiare la data in cui i primi schiavi africani arrivarono negli Stati Uniti. Partito da un’idea stimolante, il progetto si è tramutato presto in un tentativo di trasformare la schiavitù nel vero atto fondativo della repubblica. Gli storici si sono lamentati delle inesattezze e il Times le ha silenziosamente corrette, ma continuando a sostenere l’editor del progetto, che ha vinto un premio Pulitzer. Così ai giovani reporter è stata trasmessa l’impressione che lavori di questo tipo li avrebbero aiutati nella carriera.

Se la campagna di Biden non è stata troppo distratta da questi psicodrammi, sarebbe un errore per i leader democratici continuare a fingere che non esistano. I media di destra continueranno a mantenere la guerra culturale al centro del dibattito pubblico, il che non potrà far altro che aiutare il Partito repubblicano. Questo significa che i politici democratici dovranno esplicitamente prendere le distanze dalla retorica e dal teatro politico dell’“antirazzismo” ideologico, come abbattere statue dei presidenti americani. E devono resistere al tentativo di distorcere la storia americana nelle nostre scuole.

Gli elettori democratici sono interessati alla giustizia razziale, ma interessano loro il presente e il futuro, non le discussioni sul passato. Credono anche nell’equità, nel dibattito aperto e nelle legittime differenze d’opinione. Vogliono costruire l’America, non condannarla. I leader democratici devono dire chiaramente che la pensano allo stesso modo. Non importa quale sarà il risultato finale del voto di quest’anno: hanno disperatamente bisogno di fare un po’ di pulizie in casa se sperano di costruire una solida maggioranza democratica.

© Riproduzione riservata