«Abbiamo un accordo», ha detto sollevato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, annunciando il compromesso faticosamente raggiunto da un gruppo bipartisan di senatori sulle infrastrutture, uno dei cardini dell’ambizioso piano economico da 4mila miliardi di dollari presentato dalla Casa Bianca.

L’accordo prevede investimenti da 579 miliardi per strade, sviluppo della banda larga, rete elettrica e altri progetti infrastrutturali a livello federale, parte di un più ampio piano di spesa da 1.200 miliardi spalmato in un periodo di otto anni.

Il presidente ha ottenuto soltanto una frazione di quello che sperava, ma la maggioranza tenue dei democratici al Senato, resa ancora più fragile dalle intemperanze di due senatori centristi che non rispondono agli ordini di scuderia, rendeva irrealistico racimolare i sessanta voti necessari per superare l’ostruzione repubblicana. Perciò Biden, che nella fase di presentazione dei progetti di riforma ha sparato alto, evocando riforme sullo stile di quelle di Lyndon Johnson, è tornato a praticare l’arte nella quale è più versato, quella del compromesso. E del resto anche Lyndon Johnson, da senatore, era famoso per la sua capacità persuasiva, che assumeva toni minacciosi quando infliggeva ai colleghi quello che è rimasto nella storia come “the treatment”.

Biden lo ha detto chiaramente: «Tutti ci siamo trovati d’accordo sul fatto che nessuno ha ottenuto tutto quello che voleva», e il punto politico di sostanza che accontenta parzialmente entrambi i partiti è che il piano non viola la promessa di Biden di non alzare le tasse per la classe media e non mette mano ai tagli fiscali approvati sotto l’amministrazione Trump nel 2017.

I dettagli specifici dei progetti infrastrutturali che saranno coperti dalla manovra saranno resi noti, ma per ora si sa che la spesa per contrastare i cambiamenti climatici, gli investimenti su asili e servizi per l’infanzia, l’istruzione e i programmi di assistenza sociale – cioè ciò che rendeva la proposta di Biden rivoluzionaria, distinguendola da una classico investimento pubblico su strade e ponti – rimangono al di fuori di questo accordo. Da mesi va avanti a Washington un dibattito di taglio quasi ontologico sulla natura del termine “infrastruttura”, per stabilire quali aree d’intervento possano essere incluse sotto l’ombrello della manovra. I democratici interpretano nel modo più estensivo la categoria, parlando di “infrastrutture umane”, mentre i repubblicani sono per una definizione minimalista. E qui la discussione teorica diventa complicazione politica.

La seconda manovra

I democratici alla Camera hanno detto chiaramente che il loro voto sull’accordo di ieri è subordinato alle garanzie su un prossimo disegno di legge che coprirà proprio le aree infrastrutturali “umane” che danno un senso marcatamente progressista al piano di Biden, ottenendo l’assicurazione che questo secondo troncone sarà sottoposto a una particolare procedura di approvazione nota come reconciliation. La procedura non richiede i sessanta voti canonici del Senato per passare, quindi semplificherebbe la strada per la sinistra, ma allo stesso tempo limita il ricorso ad aumenti fiscali. «Non ci sarà un disegno di legge sulle infrastrutture senza un disegno di legge con la reconciliation», ripete da giorni la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il senso del ritornello non potrebbe essere più chiaro: per Biden e i democratici il compromesso raggiunto ieri ha un senso soltanto se diventa la manovra propedeutica per un’altra iniezione di spesa, tutta curvata sulle priorità politiche fondamentali della Casa Bianca.

 

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