Il pentagono mette il bavaglio alla stampa, rivolta dei cronisti contro la Casa Bianca

Mercoledì pomeriggio oltre trenta giornalisti accreditati al Pentagono hanno consegnato i loro badge e abbandonato le postazioni, in polemica con il nuovo regolamento del dipartimento della Difesa, che limita drasticamente la capacità dei cronisti non solo di raccogliere ma anche di richiedere informazioni non autorizzate, anche quelle che non riguardano materiale riservato. Chi non rispetta il mandato può essere bandito dalla sala stampa, dice il nuovo regolamento, ma a questo punto la sala stampa è pressoché vuota, perché l’associazione dei giornalisti che si occupano di difesa e sicurezza nazionale si è mossa all’unisono nel discutere, e infine rifiutare, la decisione del segretario Pete Hegseth, ex volto di Fox News e fedelissimo di Donald Trump. Spenti i riflettori dello show di Trump, a Gaza rimangono i nodi di sempre Il caso Fox News Paradossalmente, la stessa Fox News, la macchina televisiva della destra americana, è tra le testate che si sono rifiutate di firmare le nuove regole e hanno lasciato il Pentagono. Insieme a Reuters, Washington Post e altre grandi agenzie, la rete di Murdoch ha scelto di non accettare di trasformare i suoi cronisti in interlocutori controllati. L’amministrazione insiste nel presentare le nuove regole come un aggiornamento di quelle vigenti senza cambiamenti sostanziali, una misura di «senso comune» per regolamentare cronisti indisciplinati. Ma il precedente regolamento per l’accredito occupava una singola pagina, mentre il nuovo sono 21 pagine di limitazioni e minacce, con l’autorità che si arroga il diritto di revocare in qualunque momento l’accesso ai giornalisti senza fornire spiegazioni. «Accedere al Pentagono non è un diritto, è un privilegio», recita il nuovo regolamento, che non tiene conto di una serie di sentenze che proteggono il diritto della stampa di avere accesso agli uffici del governo. Trump ha difeso a spada tratta l’iniziativa di Hegseth: «Penso che trovi la stampa veramente contraria alla pace nel mondo», ha detto il presidente, definendo i giornalisti «molto disonesti». Trump, ego e mitomania: il leader narciso che vende la pace L’arma del fisco A proposito di notizie sgradite (all’amministrazione), un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che la Casa Bianca sta progettando una riforma dell’Irs, l’agenzia federale delle entrate, per renderla più incisiva nelle indagini penali contro gruppi e finanziatori legati alla sinistra. In apparenza si tratta di «rafforzare la trasparenza fiscale», ma nella sostanza è un tentativo di trasformare un’istituzione neutrale in strumento di vendetta politica. Trump ha ordinato a Scott Bessent, commissario ad interim dell’Irs, di segnalare al dipartimento di Giustizia alcune organizzazioni per ulteriori indagini. Inoltre, Bessent ha ricevuto istruzioni di utilizzare l’ufficio per l’antiterrorismo e l’intelligence finanziaria con l’obiettivo di analizzare i flussi economici di tali gruppi e rintracciare eventuali canali di finanziamento illecito. In altre parole, la Casa Bianca ha dato mandato al vertice temporaneo dell’agenzia fiscale di coordinarsi con la giustizia e con le strutture d’intelligence per monitorare le organizzazioni non profit sospettate di attività politiche o finanziarie irregolari. È l’ennesimo tassello di un progetto di concentrazione del potere che attraversa tutto l’apparato statale. La stessa logica che pretende di disciplinare i giornalisti del Pentagono si applica ora al sistema fiscale: identificare gli oppositori, delegittimarli, colpirli. È una strategia che mescola populismo e controllo amministrativo, in cui lo Stato diventa un’estensione del leader e la legalità un mezzo per regolare la fedeltà. La rivolta dei cronisti al Pentagono è molto più che uno scontro con una categoria. È un gesto di difesa civile in un ecosistema dove l’indipendenza è considerata una minaccia. Lo show di Trump: «Per il Medio Oriente oggi è una nuova alba» Il petrolio russo Mentre i giornalisti lasciavano il Pentagono, Trump annunciava trionfante che l’India avrebbe smesso di acquistare petrolio russo «nell’immediato». Si tratterebbe di una svolta strategica, se da New Delhi non fosse arrivata una smentita immediata: nessuna decisione di questo tipo è stata presa, al momento, ma ci sono discussioni «in corso» con un’amministrazione che «ha mostrato interesse nell’approfondire le relazioni energetiche». Trump ha aggiunto che l’India non può «interrompere immediatamente» le importazioni di petrolio, precisando che il cambiamento sarà «un processo un po’ graduale, ma che si concluderà presto». L’amministrazione ha imposto dazi del 50 per cento sui prodotti provenienti dall’India, che il presidente ha descritto come una punizione per l’acquisto di petrolio e armi da Mosca. La Casa Bianca vuole anche che il Giappone smetta di importare petrolio e gas dalla Russia, e il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, ha dichiarato di aver comunicato questa «aspettativa» al ministro delle Finanze giapponese Katsunobu Kato, in visita a Washington mercoledì. Tutti con Trump. Meloni (e l’Europa) in cerca d’autore