Si sa che diplomazia del Vaticano in genere si muove su tempi lunghi, addirittura eterni, ma a volte le cose possono cambiare nel giro di pochi mesi. Papa Francesco ha ricevuto il segretario di Stato americano, Antony Blinken, in un incontro di quaranta minuti (tempo lungo per la grammatica della diplomazia papale) che la Santa sede ha descritto con una nota stringata ma calorosa, sottolineando «l’affetto e l’attenzione» del papa «al popolo degli Stati Uniti d’America». Più articolata la descrizione del dipartimento di Stato, che ha riferito dell’impegno comune nell’«affrontare le sfide globali e i bisogni dei meno fortunati e dei più vulnerabili del mondo, inclusi i rifugiati e i migranti». La nota parla della leadership del papa sulla crisi climatica e dice che hanno discusso di Cina, delle crisi umanitarie in Libano e Siria e perfino della situazione del Tigray e del Venezuela. Un menù piuttosto ricco per una visita a margine del summit della coalizione anti Isis, motivo principale della missione di Blinken a Roma.

Meno di un anno fa il papa aveva rifiutato l’incontro con il predecessore di Blinken, Mike Pompeo, segretario di Stato di Trump che aveva creato una turbolenza nelle relazioni con la Santa sede criticando pubblicamente la politica accondiscendente del Vaticano con la Cina. Il Vaticano allora aveva giustificato formalmente il rifiuto dicendo che il papa non incontra rappresentanti stranieri durante la campagna elettorale, e il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, aveva aggiunto una motivazione ulteriore: «D’altra parte il segretario di Stato incontra il suo omologo e il Segretario dei rapporti con gli Stati», aveva specificato, facendone una questione di etichetta diplomatica.

Non si hanno notizie di cambiamenti del protocollo negli ultimi nove mesi, ma si hanno invece molti indizi di un radicale cambiamento di atteggiamento della Santa sede nei confronti dell’amministrazione americana, tali da giustificare una visita all’insegna dell’amicizia e della cordialità. E se il protocollo prevede solo incontri fra omologhi, amen. Francesco ha segnalato in molto modi il suo sostegno all’amministrazione democratica.

Quando la Conferenza episcopale americana ha ipotizzato di arrivare a un voto sulla controversa questione di concedere o meno la comunione al cattolico Biden, alla luce delle sue posizioni in contrasto con la dottrina della chiesa in materia di vita e famiglia, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Luis Ladaria Ferrer, ha inviato una lettera durissima ai vescovi intimando di desistere.

I vescovi sono andati avanti ugualmente e il 75 per cento della conferenza ha votato per stilare un documento sul “significato dell’eucarestia”, iniziativa assai sgradita dalle parti di Santa Marta. Il papa all’Angelus aveva detto che la comunione «è il pane dei peccatori», un riferimento non esplicito ma chiarissimo alla questione.

La recente presa di posizione del Vaticano sul ddl Zan non è del tutto estranea alla questione americana. Quando è uscita la notizia dello schiaffo diplomatico, molti si sono domandati quando sarebbe arrivato il colpo con cui normalmente Francesco corregge le posizioni troppo abrasive, per lasciare alla curia il ruolo del poliziotto cattivo. E puntualmente la correzione è arrivata, sotto forma di una lettera a padre James Martin, il gesuita più famoso d’America che da anni porta avanti la sua pastorale Lgbt.

Il papa ha espresso apprezzamento per il suo lavoro e lo ha incoraggiato ad andare avanti così, gesto che ha dato una spruzzata di arcobaleno a una settimana che per i vescovi americani progressisti era iniziata con tinte assai fosche. L’incontro di ieri con Blinken non può non essere letto nel contesto di questi eventi.

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