A una settimana dall’inizio della guerra Moshe Kabesa, un giovane cantante israeliano, non ce la faceva più a stare mani in mano. Non poteva lavorare, tutti i suoi impegni erano stati cancellati. Usciva poco, come molti residenti di Tel Aviv. Vedeva attorno a lui la stessa depressione che lo stava attanagliando. 

Domenica sera, ha deciso di reagire. Si è avvolto in una bandiera israeliana, ha aperto la grande finestra che dà su Ben Yehuda Street, in centro a Tel Aviv, ha sparato una base musicale a tutto volume e ha iniziato a cantare canzoni ebraiche. I pochi passanti si sono fermati ad ascoltarlo. Qualcuno si è seduto sulle panchine lungo la strada, per poi alzarsi quando Kabesa ha intonato la Hatikvah, l’inno nazionale israeliano.

L’appuntamento è diventato fisso per i vicini del quartiere. Kabesa ha iniziato a cantare ogni sera alle 20.30, sirene di allarme permettendo. Mercoledì sera sono suonate in centro a Tel Aviv proprio a quell’ora, seguite da un boato molto forte probabilmente causato dall’Iron Dome, il sistema antimissilistico israeliano. 

Ma Kabesa non si è perso d’animo. Dieci minuti dopo ha aperto la finestra e ha cantato per 40 minuti deliziando le oltre 30 persone che si sono man mano radunate. Dopo aver cantato l’inno, che normalmente concludeva le sue performance dalla finestra, il pubblico e altri residenti del quartiere affacciati alle finestre gliene hanno chieste altre, fra gli applausi. Lui ha continuato felice.

Una città giovane

«Dobbiamo reagire. Questo è il mio modo per cercare di tirare su la gente. Per quanto possibile dobbiamo provare a tornare alle nostre vite normali» dice Kabesa, che anche al tempo dei confinamenti a casa dovuti al Covid aveva iniziato a cantare alla finestra per lo stesso motivo.

Dal 7 ottobre scorso, a Tel Aviv si è vissuto un po’ così, tra paura, dolore, ansia e tecniche di sopravvivenza, anche piccole, se si vuole. 

L’area metropolitana della città conta quasi 4 milioni di abitanti, il 44 per cento della popolazione del paese, stando agli ultimi dati del municipio che risalgono al 2018. È il cuore economico del paese e anche della fiorente industria tecnologica, nonché un importante polo turistico e artistico, pieno di cinema, teatri ed eventi.

È anche una città giovane, in un paese giovane, vivace e solare. La più liberale del paese, famosa per le infinite possibilità che offre la sua vita notturna. Se si ferma Tel Aviv si ferma il Paese.

Solo tre birre

Yoni Matityahou, il fidanzato di Kabesa, ha aperto il suo salone di parrucchiere questa settimana ma solo su appuntamento. Mercoledì aveva un cliente il pomeriggio, ma poi ha deciso di tenere aperto tutto il giorno. 

«Altri clienti senza appuntamento si sono presentati. Un bel segnale. D’ora in poi apro ogni giorno, a meno che le cose non si complichino» dice Matityahou.

Il bar e ristorante Night Shift, nel quartiere di Florentine, noto per i suoi numerosi locali hipster, ha invece aperto per la prima volta martedì sera. Tra i pochi nel quartiere che ha deciso di farlo.

«Stasera solo per tre ore, teniamo la musica bassa, come vedi. Non abbiamo tutto disponibile, vista la situazione» spiega il cameriere. Ci sono solo tre birre alla spina disponibili tra le sette elencate nel menu, ma pazienza, dice, da mangiare possiamo farti quello che vuoi.

Pericolo costante

Le poche ore sono interrotte dalle sirene. I clienti si alzano, incluso chi scrive, e ci si sposta diligentemente ma rapidamente nello scantinato del bar, dove lo staff indica a tutti di scendere. Dopo 10 minuti, ognuno torna alle birre e agli shawarma

Le giornate trascorrono un po’ così. Si prova a uscire, almeno chi se la sente o deve o non riesce a stare chiuso in casa, e si convive con una onnipresente sensazione di pericolo, seppure per nulla evidente guardando le persone sorridere e scherzare.

Alcuni razzi hanno colpito edifici della città. Uno a un isolato da dove la sera canta Kabesa. Uno anche a Florentine. Un cliente del Night Shift racconta che lo spostamento d’aria ha frantumato le sue finestre. 

Ma poi qualsiasi cosa sia successa, ci sono le esigenze della vita quotidiana. Fare la spesa, lavorare, occuparsi dei figli.

Le spiagge chiuse

Chi lavora, se può lo fa in smart. Vari negozi a Tel Aviv hanno tenuto chiuso dal 7 ottobre. Mancano anche i turisti che con aerei militari e anche charter speciali se ne sono andati appena hanno potuto, visto che soprattutto le compagnie non israeliane hanno cancellato e continuano a cancellare i voli programmati. 

Hotel e gestori di alloggi turistici privati hanno normalmente consentito di annullare le prenotazioni senza alcuna penalità. Le famose spiagge della città sono chiuse ai bagnanti, anche ogni tanto si vede qualcuno che va a sedersi e guardare il mare o a fare una passeggiata. 

Centinaia di persone a Tel Aviv stanno anche prestando volontariato, raccogliendo vestiti, viveri e aiuti di ogni genere per l’esercito e la popolazione del sud. I riservisti richiamati sono più di 300mila, che nel giro di pochi giorni hanno lasciato lavoro e famiglia e sono partiti per lo più verso il sud del paese.

Anche le scuole sono rimaste chiuse a Tel Aviv dal 7 ottobre. 

Lezioni a distanza

Raccontano quattro compagni di classe diciassettenni di Ra’anana, a circa 20 chilometri dal centro di Tel Aviv, che martedì è stato il primo giorno che si sono incontrati dal sabato dell’attacco di Hamas.  

Fanno lezione a distanza e gli viene detto giorno per giorno se sarà così o se dovranno presentarsi a scuola per le lezioni in presenza.

«Questa settimana dovevamo andare in gita scolastica in Polonia» racconta Yotam, spiegando che tutti i giovani all’ultimo anno delle scuole superiori vanno in visita una settimana SUI luoghi dell’Olocausto. Toccava a loro questa settimana, ma non ci sono potuti andare e sono molto delusi, anche se dicono di capire bene la situazione.

I suoi amici Idan e Yonatan che giocano a pallacanestro con Yotam sono arrabbiati perché gli allenamenti per ora sono sospesi. Ma pazienza, è normale che sia così, dicono.

Vivere in pace

Racconta Yotam che dopo gli studi vuole diventare un pilota dell’aviazione israeliana. «E ora dopo quello che è successo lo voglio ancora di più».

Shira, la sua ragazza, lo guarda un po’ preoccupata, ma non dice nulla. Questi giovani appaiono molto consapevoli della situazione. Nel primo giorno in cui escono per stare un po’ insieme, sono venuti in centro a Tel Aviv, al ministero della Difesa, dove c’è un sit in permanente di parenti e amici degli ostaggi rapiti e portati a Gaza, per parlargli e mostrare la loro solidarietà.

Dicono di essere allibiti dai messaggi pro-Palestina che trovano sui social media. «Vedo solo cose come Free Palestine. Ma come fate voi europei a non capire quello che ci hanno fatto?» dice Idan.

«Noi vogliamo solo fare la nostra vita di giovani, continuare a studiare e a divertirci. Vogliamo solo vivere in pace».

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