Volodymyr Zelensky è tornato al Quirinale. Con il bicolore gialloblu sul tavolo, Sergio Mattarella gli ha dato il benvenuto assicurando «inalterato e costante sostegno all'Ucraina contro l'aggressione della Federazione russa. Lo facciamo per la sicurezza dell'intera Europa».

Zelensky lo ha invitato in Ucraina: l'ultima volta che un presidente italiano è stato a Kiev risale a un quarto di secolo fa. Ma prima di Mattarella, due notti fa, il leader ucraino ha abbracciato la premier Giorgia Meloni.

Volato in Italia dopo aver preso parte al 25esimo incontro del vertice del Gruppo di contatto con gli alleati a Ramstein, in Germania, non ha incontrato, come da programma, il presidente Joe Biden, assediato dall'emergenza dei roghi californiani, ma ha trovato Meloni, la premier volto d'Europa del momento. Foto, stretta di mano, nessun cambio di passo nell'ora, una sola, di bilaterale.

Meloni ha promesso sostegno «a 360 gradi» e Zelensky, che ha ringraziato l'Italia «mai indecisa» nel rimanere al fianco di Kiev da quell'ormai lontano febbraio 2022, ha usato Roma come palco del suo appello per farsi sentire da un altro presidente americano, quello che arriverà: Donald Trump faccia pressione sulla Russia, fornisca garanzie di sicurezza all'Ucraina e all'Europa.

L’incontro Trump-Putin

La Ukraine Recovery, la conferenza sulla Ripresa dell'Ucraina (incontro tra istituzioni e aziende per un patto condiviso di impegno per il Paese da ricostruire) si terrà proprio a Roma, ma a luglio 2025, una data che sembra lontanissima.

Molto più vicina sembra invece quella dell'incontro tra Trump e Vladimir Putin: il presidente eletto ha reso noto che l'incontro è in fase di organizzazione. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha confermato. Putin è «aperto al contatto», nessuna «precondizione», basta «volontà comune». I due presidenti sono pronti al faccia a faccia, «ci saranno progressi una volta che Trump si sarà insediato». Dunque, per Zelensky è iniziato il countdown. E anche la conta degli alleati che gli sono davvero rimasti.

Non solo le garanzie richieste di nuovo da Roma a Washington: al presidente ucraino servono anche armi e uomini. Ma in Germania, il paese che nella lista dei donatori di aiuti all'Ucraina arriva secondo subito dopo gli Stati Uniti, il cancelliere Olaf Scholz ha appena bloccato la proposta per un pacchetto da tre miliardi di dollari, un piano d'assistenza militare che volevano invece – dice uno scoop dello Spiegel – i ministri degli Esteri e della Difesa, Annalena Baerbock e Boris Pistorius. Nel paese la galoppante estrema destra tedesca, proprio come quella francese, è da sempre incline al tricolore russo.

Ci pensa Meloni

Con Berlino, Parigi, Bruxelles può parlare Meloni. La premier per discutere non solo di Ucraina, ma anche di Siria e cyberspazio, regno incontrastato dei satelliti di Elon Musk, ha ricevuto l'Alto rappresentante dell'Unione europea Kaja Kallas. Secondo gli ultimi calcoli forniti a novembre scorso dal predecessore Josep Borrell, l'impoverita Unione europea, per l'Ucraina, ha già speso 118 miliardi di euro (oltre 43 quelli destinati agli aiuti militari).

Meloni dialoga col bastione anti-russo dell'est che vorrebbe la guerra a oltranza, quello di Polonia e Baltici, ma anche e soprattutto con i loro opposti, che Mosca invece la rivorrebbero già in casa. E che, anzi, non avrebbero mai voluto fosse andata via, soprattutto dai loro tubi.

Le vie del gas russo non sono infinite e quelle che c'erano sono state tagliate a Capodanno. Da quando l'Ucraina ha messo fine al contratto per il transito di gas sul suo territorio con il colosso energetico russo Gazprom, a pagarne le conseguenze sono state Ungheria, Slovacchia, Austria, Moldavia.

Il premier slovacco Robert Fico – dopo aver passato mesi a cercare di convincere Zelensky a non interrompere le forniture – minaccia ora di tagliare i fondi destinati ai 130mila rifugiati ucraini che sono scappati a Bratislava e dintorni, insieme alle forniture di energia elettrica per gli ucraini rimasti in patria.

Da Putin, per cercare una soluzione alla crisi energetica e per offrire il suo paese come piattaforma per i negoziati di pace, Fico c'è stato a fine anno. Ancora prima di lui, appena assunta la presidenza del Consiglio Ue, c'è stato il numero uno di Budapest, Viktor Orbán, il Trump in miniatura magiaro, che con quello originale ha ottimi rapporti.

«Mi fido di te»

Il gas russo a Budapest può arrivare col Turkstream che taglia il Mar Nero, ma non è l'energia che manca al momento al Viktatore (qualcuno il premier ungherese lo chiama così, con la crasi tra il suo nome – Viktor – e la parola dittatore). Ritorsioni le promette anche lui, che continua a chiedere agli omologhi europei di avviare già i negoziati con il Cremlino, invece di inviare altri fondi agli ucraini; di cambiare strategia, sia per l'avanzata russa che procede veloce sul campo, sia perché l'elezione di Trump «ha cambiato lo stato della guerra». Orbán non ha mai incrinato il suo sostegno né a Putin, né all'amica Meloni, che ha incontrato pure lui a Roma a dicembre scorso.

«Mi fido di lei». Di Meloni ultimamente si stanno fidando tutti, non solo Zelensky che ha usato queste parole per dire arrivederci a Chigi. Di Meloni si fida Trump, il convitato di pietra che gli ucraini temono potrà rivelarsi pericoloso come una mina russa per il loro futuro e per un subitaneo stop agli aiuti militari. A Zelensky, per piegare i contrari e i riluttanti in Ue e oltreoceano, rimane in fondo una sola la testa d'ariete: è bionda ed è quella della premier italiana.

© Riproduzione riservata