Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, fino ad ora aveva scelto di non prendere posizione nello scontro tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Fa parte del suo stile, ma era anche una scelta obbligata in un momento in cui il futuro appariva così incerto. Ora però sarà costretto a fare una scelta: restare con Grillo o andare con il probabile futuro partito di Conte? Nessuna delle due è un’alternativa particolarmente allettante.

Un silenzio eloquente

I rapporti tra Grillo e Di Maio sono buoni ultimamente, assicurano diverse fonti vicine alla leadership. Pochi giorni fa, il fondatore del Movimento lo aveva definito «il miglior ministro degli Esteri di sempre». Quasi a voler confermare le parole del garante, Di Maio ha trascorso gli ultimi giorni concentrato sui suoi impegni istituzionali.

Questa settimana, ha accolto al Castello Svevo di Bari le delegazioni del G20 degli esteri («mostriamo con orgoglio le nostre bellezze»), ha incontrato il segretario di Stato americano, Antony Blinken («contro l’Isis in Africa serve un approccio olistico», ha detto) e ha salutato una bambina di 11 anni, venuta con la madre a visitare il ministero degli Esteri («grazie Greta, sono certo che riuscirai a coronare il tuo sogno»).

Alla crisi in corso nel suo partito, invece, Di Maio ha dedicato solo un breve messaggio su Facebook che si concludeva con un generico: «Diamo il massimo e rimaniamo uniti»: un’apparente distacco che non può nascondere il bivio di fronte al quale si trova Di Maio e il peso che le sue azioni potrebbero avere in questo momento.

Fino a una settimana fa, il “piano politico” attribuito a Di Maio era quello di partecipare in modo positivo alla rifondazione del Movimento da parte di Conte, restare così nella cerchia di comando (fonti del Movimento assicuravano che le due vicepresidenze previste dal nuovo statuto erano già destinate a Di Maio e al ministro Stefano Patuanelli, uno dei più contiani tra i leader del Movimento) e ottenere la fondamentale deroga al limite dei due mandati per “meriti”, un altro punto controverso dello statuto elaborato da Conte. Con un posto assicurato, Di Maio a quel punto avrebbe potuto attendere l’eventuale tramonto della stella di Conte. Magari già dopo le amministrative dell’autunno, in cui si prevede una sconfitta per quasi tutti i candidati uscenti del Movimento.

Piaccia o non piaccia

Con la rottura definitiva decisa da Grillo, il piano è definitivamente saltato e ora Di Maio ha due strade, egualmente complicate. Può scommettere sul futuro incerto dell’eventuale partito di Conte, passare dalla sua parte e accettare il ruolo di secondo in comando in un partito personale e probabilmente destinato a una vita non troppo lunga. 

Oppure può restare in un Movimento che potrebbe rimanere più che dimezzato da questo scontro. Forse potrebbe persino tornare capo politico prima di quanto pensasse, ma rischia di assumere la guida di una creatura politica che procede verso l’estinzione.

In otto anni di carriera politica, Di Maio ha sempre ricordato quanto possano essere utili in politica il silenzio, l’ambiguità e l’equidistanza. Doti che lo hanno aiutato a marginalizzare gli avversari interni e a sopravvivere a una caduta che avrebbe azzoppato leader con più esperienza di lui. Ora però è il momento delle scelte nette. E Di Maio dovrà stare attento a fare quella giusta.

 

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