Nella prima giornata del voto, mentre la percentuale dei votanti al referendum toccava il 30 per cento e promette alla fine di attestarsi intorno al 50, nella maggioranza e nel governo si è consumato, nella distrazione quasi generale, un conflitto all’arma bianca. Il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ha parzialmente riaperto gli stadi della serie A, coprendo così le fughe in avanti di alcuni presidenti di Regione (fra loro l’emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini e il veneto Luca Zaia). Dal ministero della Salute è filtrata più di qualche perplessità, basata anche sugli orientamenti del Comitato tecnico scientifico. Il ministro della Salute Roberto Speranza, evitando dichiarazioni pubbliche, ha ribadito di essere contrario a questo provvedimento per un principio di cautela, proprio ora che negli altri paesi d’Europa è ripartito pericolosamente il contagio. Dal presidente della Regione Lazio il segretario Pd Nicola Zingaretti ha fatto sapere che si adegua pur dissentendo. «Capisco le ragioni economiche e politiche. Ma dopo settimane di prediche ai giovani imprudenti era necessario riaprire a mille tifosi gli stadi della serie A?» ha twittato. Con un click di assenso si è schierato con lui il solitamente misurato Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici. Le autorità sportive hanno fatto sapere di non essere pronte per l’evento e di volerne ragionale con il ministero. Al netto del consueto circo di polemiche che in Italia si scatenano sul calcio, l’episodio fornisce una dimostrazione del polso incerto del governo nel delicato momento della seconda ondata dei contagi.

Nel contagio

Ieri le urne si sono aperte «nel contagio» per usare una suggestione rubata allo scrittore Paolo Giordano in un fortunato pamphlet uscito durante i mesi del lockdown. I dati dell’affluenza sono parzialissimi e ancora inutilizzabili per valutare le scelte dei cittadini. Ma le cronache dai seggi raccontano di regole incerte, certificati smarriti, elettori poco rassicurati quindi comprensibilmente disertori (con l’eccezione forse della sola Toscana). E scrutatori in fuga che ‘pensano alla salute’. Una priorità comprensibile, che rischia di prevalere sul diritto di voto. Una priorità perseguita dal potere centrale con ritmo ondivago, contraddittorio, due passi avanti e uno indietro.

E’ successo quest’estate con la vicenda delle aperture delle discoteche, con le conseguenze che abbiamo dovuto registrare; succede nella scuola, la priorità a parole che priorità non è stata - l’apertura e immediata chiusura per il voto è un altro passo sbagliato di questo tango triste -. E’ successo ieri con l’apertura dei seggi, programmata da mesi ma affrontata ugualmente quasi ovunque con approssimazione. E i cittadini e le cittadine in queste ore hanno paura di votare, nonostante gli auguri spensierati del presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

I primi dati dell’affluenza sono una delle poche ‘notizie’ disponibili del primo giorno delle urne. La media delle sette di sera non fa troppo mal sperare ma è una cifra non raffrontabile con altre tornate elettorali. E questo anche grazie all’unicum che il parlamento ha deciso di autorizzare l’election day: diciotto milioni e mezzo di persone possono votare per il rinnovo di sette regioni, 46 milioni e mezzo invece possono in teoria votare per il referendum in tutta Italia e all’estero. La strana accoppiata è stata imposta dai Cinque stelle agli alleati, che non hanno fatto alcuna resistenza nonostante la contrarietà del Quirinale ad aprire e subito richiudere le scuole. L’obiettivo era quello di dopare l’affluenza sul referendum e non rischiare di rendere evidente un cambio di epoca: lo scarso appeal di una riforma che arriva dal passato gialloverde, dall’era del populismo antiparlamentare che era il cemento (non il solo) della maggioranza Cinque stelle-Lega, e che tuttora viene spacciata come una sforbiciata epocale di spesa pubblica (anche fosse, non sarebbe questo il punto, ma non lo è, i Radicali hanno ripetuto allo sfinimento che i cittadini e le cittadine risparmieranno un caffè al giorno).

Dalla contesa toscana arrivano dati più confortanti che altrove, a stare alle possibili proiezioni. Ma un primo sguardo ai numeri suggerisce una morale, necessariamente provvisoria, che però dà ragione a quei non molti che si sono battuti contro l’abbinamento di regionali e referendum: nelle regioni al voto l’affluenza è più alta, anche di molti punti, e con ogni probabilità sarà determinante per il risultato del referendum. Se aggiungiamo che quasi tutti i papabili candidati presidenti hanno dato indicazione per il Sì, tranne Ferruccio Sansa in Liguria, l’aiutino allo sterminato schieramento politico che sostiene il taglio dei parlamentari è lampante. Se si voleva davvero aiutare l’affluenza, e cioè i cittadini e le cittadine a esercitare il diritto di voto, la via maestra non erano i trucchi contabili ma la preparazione seria dell’apertura delle urne (come quella delle scuole).

Il verdetto

A dati ancora troppo provvisori per raccontare una storia, in queste ore resta la sensazione che la fuga di massa dai seggi, di elettori e scrutatori, sia un primo messaggio sull’affidabilità del governo e della sua azione. Qualunque sia il risultato definitivo, i partiti della maggioranza dovranno tenerne conto quando alla ripresa affronteranno l’infinita serie di dossier inevasi. A partire dalle scelte cruciali di come impegnare l’inedito tesoro che arriva dall’Europa, sempreché l’Italia faccia progetti all’altezza delle condizioni poste.

In attesa del giudizio finale, la giornata di domenica racconta il sentimento di un paese, il suo timore, come si legge appunto in quel libretto sincero e profetico di Giordano, «che la paura passi invano, senza lasciarsi dietro un cambiamento».

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