Nelle montagne tropicali al centro della Repubblica Dominicana, dove i turisti si avventurano raramente, è impossibile percorrere un chilometro di strada senza imbattersi in un vecchio camion giapponese Daibatsu che arranca stracarico. «Portano tayota agli haitiani», dice Joel Roman mentre a bordo della sua jeep supera l’ennesimo furgone. Tra le fibre dei sacchi stipati nel cassone si intuisce la forma a pera e il colore verde chiaro di un frutto tropicale. «Vanno al mercato di Dajabon, al confine», dice indicando un nuovo camioncino che spunta dietro la curva successiva. «Sono solo duecento chilometri, ma a questa velocità ci metteranno sei ore ad arrivare». 

La strada tortuosa attraverso i picchi che arrivano fino a tremila metri è solo l’inizio dell’ordalia per i trasportatori di tayota. A Dajabon, al confine con Haiti, la sfortunata nazione gemella che condivide l’isola di Hispaniola con la Repubblica Domenica, la situazione è di nuovo tesa.

Da quando nel 2021 il presidente è stato assassinato, Haiti è sprofondata nell’anarchia, la capitale è dominata da bande armate e la popolazione soffre la fame. Di recente, un diplomatico domenicano è stato rapito da un gang e il governo ha mandato le truppe al confine.

A Dajabon sono schierati i blindati dell’esercito domenicano, mentre i telegiornali parlano di possibile “operazione militare” oltre confine. Nel frattempo, una nuova ondata di sentimento anti haitiano percorre la Repubblica Domenicana.

Roman dice di non credere a quello che dicono i media. Haiti è sempre stato un paese instabile, ma non ha mai causato problemi alla Repubblica Domenicana, che tra l’altro di guai ne ha già abbastanza. Nato a Santo Domingo, la capitale, Roman lavora sulle montagne, nella provincia di Jarabacoa, ai piedi del Pico Duarte, la montagna più alta dei Caraibi, dove ha fondato Guias de alturas, una piccola agenzia turistica di guide alpine. 

Ai lati della stretta strada che lo costringe a spericolati sorpassi, i campi di tayota che sembrano filari di viti spuntano tra gli alberi tropicali dietro ogni casa. «Non che la coltivino perché sia buona – dice Roman – Sai cosa diciamo qui? Comer tayota e no comer nada es lo mismo».

Mangiare niente

«Mangiare tayota e non mangiare nulla sono la stessa cosa» è una alle innumerevoli battute che i domenicani fanno su questa specie di zucchina. La tayota è il cibo povero per eccellenza nell’isola di Hispaniola, ma nonostante la sua umiltà sembra spuntare in tutti i movimenti chiave della storia e della politica di questo luogo. 

Importata dal Messico sulle navi dei colonizzatori spagnoli, la tayota è quella che in America centrale e nel resto del mondo è conosciuta come chayote: una pianta della famiglia delle cucurbitacee, la stessa delle zucche, con un alto valore nutritivo, un ricco contenuto di vitamine, ma un sapore non proprio impressionante.

I domenicani più poveri la usano spesso per integrare gli onnipresenti stufati di maiale e fagioli quando la carne è poca. In bocca ha una consistenza soffice e acquosa, ma meno sostanziosa e gradevole delle sue cugine più diffuse in Europa.

Anche se la tayota non può competere con la diffusione degli altri frutti tropicali coltivati nell’isola, negli ultimi anni ha conosciuto una crescita esplosiva. Chef di origine latina, come l’italo argentino Mauro Colagreco, del ristorante Mirazur a Mentone, hanno introdotto la tayota/chayote ai raffinati palati dei frequentatori di ristoranti stellati. La politica domenica è rapidamente salita a bordo, promuovendo la coltivazione nelle aree più remote, e povere, del paese. 

«Qui ora tutti hanno un campo di tayota», dice José Bonifacio, un coltivatore de La Cenga, nella provincia di Jarabacoa. Quindici anni fa Bonifacio e la sua famiglia sono stati tra i primi a beneficiare del programma “Jarabacoa capitale della tayota” promossa con grandi fanfare dall’allora presidente Daniel Medina. «Coltivare la Tayota è semplice e i campi rendono molto», dice». «Con il raccolto di un anno si può fare la semina dell’anno successivo».

Fino a non molto tempo fa anche lui si inerpicava per la strada tortuosa che porta a Dajabon, il crocevia dell’isola che collega due paesi agli antipodi: Haiti flagellata da anarchia e catastrofi, e la Repubblica Domenica, apparente paradiso turistico.

Qui, ogni mattina, quando le guardie di frontiera domenicane aprono i cancelli, la popolazione della città triplica per l’arrivo di oltre 40mila haitiani che passano il confine per dedicarsi a piccoli commerci, ma soprattutto per comprare cibo. Haiti, il paese più povero dell’America latina e uno più poveri al mondo, è ormai da decenni sul costante orlo di una crisi alimentare.

La tayota, economica e nutriente, è una delle scelte predilette degli haitiani che ogni giorno ne acquistano decine di tonnellate, trasportate al mercato da un interminabile file di sferraglianti furgoni giapponesi. Tranne quando la politica si mette di mezzo e il confine finisce chiuso per una ragione o per l’altra.

Un presidente tayota

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«Prima di essere eletto, il nostro attuale presidente Luis Abinader era soprannominato “tayota”, perché era moscio, senza carisma...senza sapore», dice Jose Horacio Rodriguez, deputato eletto nel distretto di Santo Domingo. Oggi il soprannome lo si può ancora trovare utilizzato sui profili social della destra domenicana più estrema, come “Somos dominicanos no somos haití”, che lo accusano di non fare abbastanza contro l’immigrazione.

Eletto dopo che il suo predecessore e grande sponsor della coltivazione di tayota Daniel Medina era stato costretto a dimettersi da una serie di scandali di corruzione, Abinandel si era presentato come un volto fresco e un portatore di cambiamento, ma come spesso accade nella Repubblica Domenicana, le promesse sono restate sulla carta. Le misure principali intraprese dal suo governo sono la costruzione di un muro al confine con Haiti e nuove norme per rendere difficile la vita agli immigrati.

«I partiti domenicani fanno grandi promesse di riforme socialdemocratiche, ma una volta arrivati al governo sfoderano un’agenda conservatrice di cui non parlano mai in campagna elettorale», dice Rodriguez. Come i suoi predecessori, dice, anche Abinandel usa immigrazione e nazionalismo per nascondere i veri problemi del paese: le profonde diseguaglianze, la corruzione endemica e la criminalità.

In discarica

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I coltivatori di tayota e i loro acquirenti haitiani sono spesso tra le prime vittime di queste spirale di persecuzioni e ritorsioni. Quando poco tempo fa il governo di Haiti aveva deciso di proibire agli haitiani di fare acquisti oltre confine – una rappresaglia per colpire i commercianti domenicani – le famiglie tornate da Dajabon cariche di cibo si sono viste assaltare dai paramilitari haitiani.

I loro acquisti, tra cui svariate tonnellate di tayota, sono stati confiscati e gettati. Alcuni haitiani sono tornati di notte nella vicina discarica per cercare di recuperare ciò che potevano. Altre volte sono i domenicani a bloccare il confine o a sequestrare agli haitiani quello che hanno comprato, chiedendo magari in cambio una tangente per restituirlo.

L’episodio più cruento di questa difficile relazione si è verificato proprio vicino alla città mercato di Dajabon, lungo il fiume Massacro, quando nel 1937 il dittatore domenicano Rafael Trujillo ordinò un genocidio degli immigrati haitiani. Secondo le stime, oltre 30mila persone furono uccise.

La questione etnica e razziale è centrale nelle tensioni tra  ì due paesi. Haiti è l’unico stato al mondo nato da una rivolta di schiavi e la sua popolazione è quasi completamente nera. La Repubblica Domenica è un paese misto, con circa l’80 per cento della popolazione di origine mulatta. Ma le sue classi dirigenti hanno sempre insistito sulla radicale differenza tra gli “europei” domenicani e gli “africani” di Haiti.

Ancora oggi, avere origini haitiane, oppure soltanto la pelle un po’ più scura o i capelli più ricci, possono essere un problema per la vita di tutti i giorni. «Ci hanno insegnato che essere neri è una brutta cosa», dice Angela Lirianor, attivista e docenteall’università Unibe di Santo Domingo. 

«Questa settimana, un articolo su una rivista ha mostrato che solo il sei per cento dei domenicani si identifica come nero. È incredibile pensare che il tentativo del dittatore Trujillo di rendere la nostra razza “bianca” continua a restare nel Dna dei domenicani».

Un Dna che però, dimostrano studi genetici e antropologici, è mulatto, frutto di contaminazione e con una storia e una cultura inseparabili da quelle della nazione vicina. I due paesi condividono non solo la stessa isola, ma anche musica, rituali e tradizioni. Condividono anche la tayota. A Jarabacoa, Bonifacio, che si definisce lui stesso un mulatto, dice che per ogni due camion di che manda a Dajabon altri tre vanno a Santo Domingo.

Con l’aumento della popolarità di questo frutto negli ultimi anni, sono iniziati a comparire siti con le ricette e quelli che ne elencano le proprietà positive. Alla fine, sembra che per ogni battuta sulla tayota, per ogni allusione razzista, i domenicani hanno almeno una cosa buona da dire su questo frutto. «La tayota ha un sacco di proprietà fantastiche – dice Bonifacio – c’è gente che la mangia con il limone ed è ottima sia per drenare i liquidi corporei che contro il diabete. Mio padre era diabetico, ora non c’è più, ma mia madre gliela dava sempre».

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