L’arrivo della quarta ondata ha riportato in Europa l’incubo delle chiusure e dei lockdown. Dall’Austria ai Paesi Bassi sono sempre più numerosi i paesi che a causa dell’aumento dei casi di Covid-19 sono costretti a imporre nuove limitazioni alla vita quotidiana.

Per gli esperti sono molte le ragioni che hanno contribuito a questo aumento. L’arrivo del freddo e quindi l’aumento della socialità al chiuso, dove il virus si può diffondere più facilmente; l’allentamento delle misure di contenimento, come l’uso della mascherina, praticamente scomparso in tutta l’Europa settentrionale. Ma anche la presenza di nuove varianti più contagiose avrebbe un ruolo nell’aumento.

L’ultimo fattore, quello che secondo un numero crescente di esperti potrebbe essere il più determinate, è il calo nel livello di protezione fornito dai vaccini. Sono trascorsi oltre sei mesi da quando i più anziani e vulnerabili cittadini europei hanno completato il loro ciclo vaccinale.  Grazie agli ultimi studi, sappiamo che dopo questo lasso di tempo la protezione fornita dai vaccini contro l’infezione e la malattia potrebbe calare fino ad un terzo. Significa, potenzialmente, decine o centinaia di migliaia di casi in più: abbastanza da alimentare una quarta ondata di contagi.

Se questo scenario venisse confermato, la somministrazione della terza dose, che contribuisce a riportare la protezione a livelli molto alti, diventerebbe uno strumento chiave per evitare le conseguenze peggiori della nuova ondata. Alcuni dati fanno pensare che sia proprio questo il caso, ovvero che potrebbero parlare di epidemia della terza dose mancante.

AP Photo/Achmad Ibrahim

Il caso del Regno Unito

Il paese dove la terza dose sembra essere stata più importante nella difesa dalla quarta ondata è il Regno Unito. Con 16 milioni di terze dosi distribuite, è uno dei paesi al mondo che ne ha effettuate di più. La copertura è già arrivata a circa il 70 per cento delle persone che avevano completato il ciclo vaccinale più di sei mesi fa. In Germania e in Italia le percentuali sono circa 50 e 40 per cento.

Gli effetti della terza dose nel Regno Unito si sono visti in modo drammatico a partire dall’inizio di novembre, quando il tasso di ospedalizzazione degli over 65 (la categoria che ha ricevuto il maggior numero di terze dosi) ha iniziato a crollare molto più rapidamente di quello del resto della popolazione.

Si tratta di un effetto simile a quello che abbiamo visto anche in Italia a marzo, quando la maggioranza dei più anziani iniziava ad essere vaccinata e quindi il loro tasso di ospedalizzazione calava più rapidamente rispetto a quello di gruppi più giovani, ma meno vaccinati.

Il risultato è che con meno di 40mila nuovi casi identificati al giorno, una cifra in calo costante da un paio di settimane, il Regno Unito è ben lontano dai picchi toccati in paesi come Austria e Paesi Bassi, dove, in proporzione alla popolazione, l’epidemia è in una fase molto più avanzata.

Questa situazione ha portato a diverse esibizioni di sciovinismo da parte dei britannici, con media e politici locali che hanno festeggiato quella che sembra una “performance” migliore del loro paese rispetto al resto d’Europa.

Ma questo risultato ha avuto un costo elevato per il paese. Dopo aver eliminato tutte le restrizioni in estate, il Regno Unito ha registrato un picco di contagi iniziato ad agosto e non ancora del tutto esaurito. Da allora, il paese ha registrato oltre 15mila morti, una cifra che, per capita, in Europa è stata superata soltanto da paesi come Bulgaria e Romania, dove meno del 40 per cento della popolazione si è vaccinato.

Di fatto, il Regno Unito ha deciso di convivere per mesi con una media di circa 150 decessi al giorno. Ma così facendo, e con l’aiuto della terza dose, il paese sembra aver evitato la situazione che fronteggiano oggi paesi come l’Austria.

«Nel Regno Unito l’arrivo della variante Delta, i problemi causati dalla riduzione dell’immunità e l’inizio della stagione fredda sono arrivati in momenti separati. In paesi come l’Austria sono capitati tutti insieme, causando la tempesta perfetta», ha detto questa settimana al Financial Times Mark Woolhouse, professore di epidemiologia all’Università di Edimburgo.

Pascal Soriot, amministratore delegato di AstraZeneca, ha fornito anche un’altra spiegazione: il Regno Unito beneficerebbe del fatto che il vaccino prodotto dalla sua azienda, e poco utilizzato in Europa per una serie di problemi e litigi politico-diplomatici, sarebbe quello che fornisce la protezione che dura più a lungo. Non sono molti gli esperti che sottoscrivono questa tesi.

Cosa sappiamo

Anzi: stando a quello che sappiamo al momento, AstraZeneca è uno dei vaccini la cui efficacia cala più rapidamente nel corso del tempo.

La diminuzione dell’efficacia della protezione fornita dai vaccini è un fenomeno che conosciamo bene e sappiamo da mesi che è valido anche per i vaccini anti Covid. Ma stabilire esattamente quanto e quando cala l’immunità e le eventuali differenze tra le varie tipologie di vaccino, è un altro paio di maniche.

Uno dei lavori più completi è stato pubblicato pochi giorni fa, in una versione pre-stampa, sull’archivio della prestigiosa rivista The Lancet. Si tratta di uno studio che ha preso in considerazione oltre 9mila articoli sul calo dell’efficacia vaccinale e ne ha esaminata più di 200 in modo approfondito, realizzati in Israele, Qatar, Spagna, Svezia, Regno Unito, Canada e Stati Uniti.

I risultati sono molto interessanti e confermano che la protezione fornita dai vaccini cala in modo sensibile dopo sei mesi dalla seconda somministrazione, pur restando piuttosto elevata. «La maggioranza degli studi indica che i vaccini continuano a fornire una protezione superiore al 70 per cento contro i casi gravi», scrivono i ricercatori.

Più in particolare, la protezione contro l’infezione cala in media del 18,5 per cento nella popolazione generale e del 19,9 per cento tra le persone anziane. Quella contro l’infezione sintomatica cala del 25,4 per cento e del 32 per cento tra gli anziani. Infine, quella contro la malattia in forma grava scende meno di tutte. Dopo sei mesi, cala in media dell’8 per cento e del 9,7 per cento per gli anziani. 

I ricercatori hanno scritto di essere rimasti sorpresi che la protezione contro la malattia sintomatica cali meno di quella contro l’infezione, ma questo risultato potrebbe essere frutto della scarsità o della qualità dei dati utilizzati.

Se si esaminano i dati divisi per vaccino, viene fuori che quelli che garantiscono la protezione più duratura sono quelli basati su tecnologia a mRna, cioè Pfizer e Moderna. Contro la malattia grave, la protezione che forniscono rimane superiore all’80 per cento anche dopo mesi. Vaxzevria, il vaccino prodotto da AstraZeneca, è invece quello che mostra il calo maggiore, così come Janssen, il vaccino prodotto da Johnson & Johnson.

E l’Italia?

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Il nostro paese è uno dei più avanzati in Europa per numero di somministrazioni totali, ma non stiamo facendo particolarmente bene con le terze dosi. Con poco più di 8 somministrazioni ogni 100mila abitanti siamo leggermente dietro Spagna, Francia e Germania e molto indietro rispetto al Regno Unito, che ne ha somministrate più di 23 ogni 100mila abitanti.

Il governo ha promesso più volte di aumentare il ritmo delle somministrazioni, con l’intento esplicito di rallentare l’impatto della quarta ondata. Il problema è che circa il 30 per cento dei centri vaccinali è stato chiuso e le risorse destinate ad andare a “prendere” le persone da vaccinare rimangono poche.

Una prima strategia per accelerare è stata quella di allargare progressivamente la fascia di popolazione che poteva richiedere la terza dose. Oggi spetta a tutti gli over 40, dal primo dicembre ne avranno diritto tutti gli over 18. Un’altra scelta è stata quella di accorciare il tempo di attesa tra seconda e terza dose, abbassato proprio questa settimana da sei a cinque mesi.

Negli ultimi giorni si sono cominciati a vedere i primi risultati. Le somministrazioni di terze dosi hanno raggiunto le 200mila al giorno questa settimana: un raddoppio netto rispetto a un mese fa, quando erano poco più di 100mila.

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