Oggi a Istanbul, in Turchia, inizierà un nuovo giro di negoziati tra Ucraina e Russia per cercare di arrivare a un cessate il fuoco. Ecco quali sono le agende dei principali attori in questa complessa trattativa.

Ucraina

I negoziatori ucraini devono dimostrare che stanno davvero cercando una soluzione diplomatica al conflitto e che i sacrifici e le distruzioni subite dal popolo ucraino stanno portando a qualche tipo di risultato, almeno sui tavoli diplomatici.

Allo stesso tempo devono muoversi con cautela, poiché non è detto che tutti gli ucraini approverebbero le eventuali concessioni su cui dovessero trovare un accordo. La stessa attenzione la devono riservare ai loro alleati occidentali.

Per percorrere questa stretta strada, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi consiglieri hanno accettato di trattare in ogni condizione. Hanno incontrato le controparti persino in Bielorussia, un paese sotto parziale controllo russo e impegnato nelle ostilità, anche se non direttamente con le sue truppe.

Di persona o tramite mediatori, gli ucraini hanno fatto sapere che sono pronti ad accettare una serie di condizioni poste dalla Russia: uno status neutrale per l’Ucraina, che escluda apertamente l’ingresso nella Nato, il riconoscimento del russo come lingua ufficiale e qualche tipo di maggiore autonomia regionale.

Dall’altro lato, Zelensky e i suoi hanno rassicurato gli ucraini su quali sono le “linee rosse” che non sono disposti ad superare: sacrifici alla sovranità nazionale e all’integrità territoriale del paese. Un punto che, con la Crimea occupata e il riconoscimento russo dell’indipendenza del Donbass, rappresenta il vero ostacolo delle trattative. La scorsa settimana, poi, Zelensky ha annunciato che qualsiasi accordo dovesse essere raggiunto sarà sottoposto a un referendum popolare.

Russia

Fino a questo momento, i russi si sono mostrati disponibili al negoziato quanto gli ucraini. Le uniche resistenze che hanno posto sono quelle nei confronti di un incontro tra Putin e Zelensky, che proprio ieri è stato definito dal portavoce del presidente russo «potenzialmente controproducente», almeno in questo momento.

Ci sono due interpretazioni che vanno per la maggiore: il governo russo sta prendendo tempo, dimostra buona volontà per scongiurare nuove sanzioni europee e americane, ma punta ancora ad una svolta militare sul campo.

La seconda: i diplomatici di carriera, come il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, stanno davvero cercando una soluzione diplomatica, ma trovare un accordo che possa piacere anche a Putin non è semplice. In questi giorni, molti si chiedono se Putin potrebbe accontentarsi di una vittoria militare nel Donbass per mettere fine alle ostilità.

Di fronte alle difficoltà militari sembra la soluzione più ragionevole, ma significa dare per scontato che Putin abbia effettivamente la nostra stessa visione di quel che accade sul campo di battaglia e cioè l’impossibilità di raggiungere con mezzi militari i suoi obiettivi politici. Se così non fosse, è probabile che tutto quello a cui assisteremo in questi giorni di trattativa sarà soltanto uno specchietto per le allodole.

Unione europea

L’Unione europea è tagliata quasi completamente fuori dai negoziati. La Russia la considera una potenza ostile, come gli Stati Uniti, e il suo ruolo in una possibile de-escalation è limitato. Anche mettere ulteriore pressione alla Russia è difficile: dopo aver approvato importanti sanzioni tra la fine di febbraio e i primi di marzo, l’Unione europea è tornata a dividersi e fatica a prendere decisioni che vadano al di là dei proclami.

Il mezzo di pressione più efficace sarebbe il blocco dell’acquisto di gas russo (che vale quasi un miliardo di euro al giorno), ma su questo punto l’Unione è ancora più divisa che sulle sanzioni, con Germania e Italia in prima fila tra i contrari. Rimangono le iniziative individuali dei singoli capi di governo. Ieri, ad esempio, Mario Draghi ha parlato al telefono con Zelensky ricordandogli «la piena disponibilità dell’Italia a contribuire all’azione internazionale per porre fine alla guerra».

Ma la strada che porta il nostro paese a diventare un mediatore nella crisi sembra in salita. Ancora più attivo è presidente francese Emmanuel Macron, che ha parlato con Putin molte volte, ma senza gradi successi. Il suo ultimo tentativo è quello di persuadere il presidente russo ad accettare una missione internazionale per evacuare i civili da Mariupol. Il presidente francese rimane comunque uno dei leader occidentali più prudenti e inclini al dialogo e domenica ha invitato gli alleati a non utilizzare «linguaggi provocatori».

Stati Uniti

Come l’Unione europea, gli Stati Uniti non sono direttamente attivi nelle trattative, ma sono comunque uno dei paesi più influenti su tutto il processo: qualsiasi accordo per il cessate il fuoco dovrà infatti includere qualche tipo di riduzione delle sanzioni e dovrà quindi avere l’approvazione degli alleati occidentali. In altre parole, gli Stati Uniti contribuiscono a definire gli spazi di manovra degli ucraini nelle trattative. Due settimane fa, ad esempio, il segretario di Stato Anthony Blinken aveva chiarito che un semplice ritiro delle truppe russe dalle aree occupate nell’invasione non sarebbe stato sufficiente a portare alla riduzione delle sanzioni.

Per questa ragione, quando sabato scorso Biden ha detto che Putin «non può restare al potere» ci sono state forti reazioni (come il commento di Macron sui discorsi «provocatori»). In molti si sono chiesti infatti se il presidente americano intendesse dire che il conflitto sarebbe dovuto proseguire fino alla rimozione di Putin o che, indipendentemente dagli accordi tra Ucraina e Russia, le sanzioni sarebbero rimaste in vigore fino all’eventuale caduta di Putin. Ma la Casa Bianca ha subito precisato che Biden non intendeva auspicare un regime change in Russia. Di certo, però, le sue parole hanno allarmato il Cremlino. E forse anche qualcuno in Ucraina.

La Cina

La rapidità e l’ampiezza delle sanzioni applicate alla Russia ricordano alla Cina quanto sia rischioso avere profondi legami economici con l’occidente (molti osservatori sottolineano come la Cina sia molto più integrata della Russia nell’economia globale).

Questa osservazione, unita al fatto che il paese ha bisogno di uscire dal suo modello di crescita basato su debito, investimenti ed esportazioni, potrebbe spingere la leadership del paese a sfruttare questa occasione per accelerare il “decoupling”, il “disallineamento” dell’economia cinese da quella globale, il che renderebbe il paese meno vulnerabile alle sanzioni e potrebbero condurlo a una crescita più “sana”.

Questo però non è un processo che può avvenire rapidamente e non tutti i membri della leadership cinese vorrebbero assistere all’effetto di sanzioni simili a quelle che hanno colpito la Russia mentre il paese è ancora legato alle esportazioni verso l’occidente e con un sistema finanziario profondamente integrato con il nostro.

Sembra che la Cina preferirebbe che la guerra finisse il prima possibile, ma è altrettanto chiaro che non ha ancora deciso che atteggiamento tenere. Non è ancora chiaro, ad esempio, se e quanto le sue banche aiuteranno le controparti russe ad aggirare le sanzioni economiche. Sulle forniture di armi richieste dalla Russia, Pechino si è limitata a “non escludere” che in futuro possano avvenire, anche se non è una questione immediata.

Più passa il tempo, però, e più i leader cinesi dovranno affrettarsi a prendere una decisione.

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