La radiazione del gruppo del “manifesto” da parte del Pci avviene nel novembre del 1969. Nel giugno di quell’anno un gruppo di dirigenti e intellettuali dell’area di Pietro Ingrao decide di pubblicare la rivista che porta lo stesso nome e che sostiene tesi in dissenso dalla linea del partito comunista, guidato allora da Luigi Longo.

Alla redazione di quel numero partecipano, fra gli altri Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Lidia Menapace. Fra loro anche c’è Rossana Rossanda, già dirigente del Pci milanese, morta stanotte all’età di 96 anni. 

La rottura con il Pci si consuma definitivamente con l’editoriale non firmato e attribuito a Lucio Magri, che si intitola “Praga è sola”. A quasi un anno dall’invasione dei carroarmati sovietici che soffocano il nuovo corso della Cecoslovacchia, denuncia lo stalinismo e “la gravità del vuoto derivante da una crisi crescente del campo socialista europeo”.

L’idea di una rivista eretica rispetto alla linea del Pci risale all’anno prima, ma il dissenso nasce da lontano, e già nel 1966, all’XI congresso, Ingrao pronuncia un intervento in dissenso con le tesi del segretario.

Nel ’69 la pubblicazione della rivista rende inevitabile la rottura. A novembre il comitato centrale del Pci accusa il gruppo di frazionismo e delibera la “radiazione” (non l’espulsione, provvedimento riservato a chi veniva accusato di indegnità). Ingrao vota a favore, poche le voci contrarie (Cesare Luporini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Tre gli astenuti: Chiarante, Garavini e Badaloni).  

Non vengono rinnovate le tessere dei componenti della redazione, anche dirigenti di lungo corso come Massimo Caprara, per anni segretario personale di Togliatti. Di qui a un anno il manifesto si costituisce come partito politico.

Nel febbraio ’71 in un congresso tenta l’unificazione con la formazione della sinistra rivoluzionaria Potere operaio. Ma l’operazione non riesce. Il 28 aprile 1971 il manifesto diventa quotidiano.

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un brano del libro di memorie che Rossana Rossanda ha pubblicato per Einaudi nel 2005, La ragazza del secolo scorso 

Quale, dove era stato l’errore? Non il nostro, che era soltanto di essere stati pochi e in ritardo. Non mi dava pace quel ripiegare del Partito comunista che non era imputabile soltanto all’Urss – del resto quale Urss, se dopo la morte di Stalin s’era soltanto divisa i poteri, incapace di aprirsi dentro di sé e tenere una rotta nel mondo? Neanche riusciva a tenere il proprio campo senza gli eserciti.

Non diceva una parola sul che fare negli immensi paesi ex coloniali, si limitava ad appoggiare nel Medioriente un progressismo assai dubbio. Non era piú la fortezza assediata e tuttavia si sfiniva in una corsa al riarmo, come stesse per essere attaccata, mentre si stava minando dal di dentro.

Nel 1969 nulla si poteva sperarne se non cambiava qualcosa di profondo nel gruppo dirigente, le masse erano da un pezzo anestetizzate piú che per terrore, per scetticismo.

Ma nel Pci come si era accumulato, proprio in un passaggio del mondo a mutamenti dall’esito ancora possibile, tutto quel moderatismo? Perché una speciale ottusità mi pareva recente, non era detto che al 1968 il Pci avrebbe risposto chiudendosi a testuggine, e del resto all’inizio ne era stato turbato. Quel corpo vivente cui mi ero legata dal 1943, che aveva attraversato quegli anni
con me, a che punto era ormai di sofferenza o desiderio e impotenza? Ero avvezza a muovermi in esso come su una grande tastiera che rispondeva e mi lanciava messaggi.

Da quella tastiera ero stata separata. E ben poco mi interessava quell’altrove della mente che mi ero sempre riservata, il mio giardino giovanile era rimasto segreto e ormai pieno di erbe matte. E poi ero presa dalla sensazione che eravamo colpevoli, che da troppo tempo avessero chiamato da tutte le parti e non avessimo risposto a nessuno.

E ora eravamo anche colpevoli di essere puniti, non avevamo ottenuto niente e indebolito Ingrao, cui eravamo attribuiti ex origine. Aveva ragione lui nel rimproverarci: a che serve una testimonianza? La politica è un’altra cosa. Sí, ma quale politica? Che cosa mostrava il Pci se non l’incapacità di capire, nonché far avanzare ed elaborare un bisogno che esplodeva dalle viscere della società? Anzi dal cervello, dai suoi punti alti? Quella degli studenti era tutto fuorché una jacquerie.

O forse era già tardi sia per testimoniare sia per far politica, ma non potevo saperlo. In ogni caso non eravamo stati capaci neanche di segnare il partito. Impossibile avere la coscienza a posto e del resto che ci importava del benessere della nostra personale coscienza?

Non entrava nelle nostre menti metterci in un lavoro di frazione andando a sondare di nascosto tutti coloro che avevamo sentito vicini. Non ci saremmo infiltrati nel nostro partito come in una casa altrui – fosse superbia, fosse fastidio, fosse (ma mi viene in mente oggi) stanchezza.

È probabile che ardesse ancora in noi un lumicino, avevamo perduto una battaglia ma forse non la guerra, il Pci non sarebbe andato avanti così per un pezzo. La crisi del socialismo reale era squadernata.

Il centrosinistra era in una impasse. La società aveva mandato segnali a nostro favore. Perché non rilanciare? Mettere la febbre addosso a Botteghe oscure? Non avevamo nulla da perdere.

Così nacque l’idea, cara a tutti gli intellettuali, di fare una rivista, un mensile esplicitamente di tendenza, qualcosa che non era contemplato dalle regole e che al Pci non sarebbe stato facile interdire ora che teneva alle forme, ci aveva lasciato parlare al congresso e perfino riconfermati al comitato centrale invece che scagliarci nella polvere.

La promessa di Berlinguer

L’idea era soprattutto di Lucio Magri, che fu quello che tirò di piú, vi mise corpo e anima. Non tutti al principio ne erano persuasi, ma certo Pintor, Natoli, Castellina, Milani e io. E altri si aggiunsero appena circolò.

Valentino Parlato che lavorava a «Rinascita» la lasciava e lo stesso avrebbe fatto Lisa Foa. Dall’«Unità» venivano Luca Trevisani, che era stato della squadra di Luigi, e dai sindacati Ninetta Zandegiacomi. Quanto ai disposti a collaborare parevano un esercito. Il nostro sangue ricominciò a pulsare.

Trovammo un piccolo editore a Bari, e gli fummo grati – altri, piú grossi, ci avevano mandati a spasso, o che non si fidassero di  noi, le riviste avendo in Italia uno scarso appeal, o che non volessero contrariare il Pci.

Con l’editore barese ci impegnavamo a dargli gratis ogni numero finito e impaginato in cambio di cinquemila abbonamenti che avremmo fatto noi e ci sarebbero serviti a pagare un affitto, un telefono, quel minimo che ci occorreva.

Dovevamo informare il partito per correttezza.

Fui spedita io a parlarne con Berlinguer: «Stiamo preparando una rivista mensile. Non vengo a chiederti un consiglio, mi diresti di no. Vengo a informartene». 

Non dette in escandescenze, sia perché non perdeva facilmente il controllo sia perché, mi parve, considerava la faccenda con inquietudine ma non senza interesse. Sapeva che nel partito il dibattito era asfittico, sapeva chi eravamo, sapeva che avremmo avuto un ascolto, sapeva che non avremmo messo in pericolo il gruppo dirigente e sapeva infine che non sarebbe riuscito a impedircelo.

«Spiegami che intendete fare». Glielo spiegai. Me lo sconsigliò senza eccessivo calore, capiva che eravamo decisi. Prima di uscire gli chiesi: «Pensi che ci saranno sanzioni disciplinari?» «Questo lo escludo». Mi congedai, promettendo di fargli vedere le prime bozze. Giocavamo allo scoperto, era un rapporto leale.

Ingrao ci sconsigliò con energia. Non solo non ci stava a fare la rivista – lo sapevamo, come non ci aveva approvato al congresso – ma non si faceva illusioni: quando gli dissi: «Berlinguer esclude che ci siano misure disciplinari», scosse la testa: «Vi cacceranno».

Non apprezzava che avanzassimo il discorso uscendo dalle regole, tendeva l’orecchio al di là di quel che accadeva da noi, pensava che era sbagliato bruciare i vascelli.
Preparammo il primo numero della rivista con buon umore.

Ci vedevamo tutti i pomeriggi in un appartamento allora fatiscente dove avevamo collocato Lucio, discutevamo con ardore su che cosa scrivere e come, ci leggevamo reciprocamente i pezzi – salvo quelli di Valentino Parlato che arrivavano quando già Luca Trevisani, che sarebbe andato a impaginare (era il geniale fratello che ci aveva fatto il design), metteva il piede sul treno per Bari.

Il primo numero 

Perdemmo molte ore sul nome che avremmo dato al mensile, presuntuoso come «La ragione» o equivoco come «Le armi della critica» (Marx aveva invitato «alla critica delle armi») e non ricordo che altro, finendo per logoramento su «il manifesto». Quello del 1848. Il riferimento a Marx lo volevamo. Anche se si sapeva che ogni testata, se non fallisce subito, diventa una sigla sul cui senso non si interroga nessuno.

Sul primo numero scrivemmo tutti. L’editoriale di Pintor risulta piú che preveggente se nella primavera del 1969 scriveva che quello del Pci con la Democrazia cristiana era «Un dialogo senza avvenire».

C’è un pezzo, credo mio, contro la conferenza internazionale dei partiti comunisti. Mandai le bozze a Berlinguer che mi chiamò subito: «E questa sarebbe una rivista di ricerca? È tutta di intervento politico». «Sono la stessa cosa».

Neanche quella volta insistette o minacciò. Mi chiese di posticiparne l’uscita di un paio di settimane, stava appunto andando a quella conferenza rimandata ormai da sei anni, aveva intenzione di attaccare l’invasione della Cecoslovacchia e non ci mancava che il Pcus avesse già la rivista sul tavolo per sventolargliela in faccia. D’accordo.

Nella conferenza di Mosca non successe nulla di clamoroso. La Cina venne condannata ma era già lontana da un pezzo. I cubani erano rientrati nei ranghi. Berlinguer criticò l’intervento in Cecoslovacchia, cosa che non lo fece amare ma neppure mandare al rogo
dal Pcus.

Il primo numero del «manifesto» uscì a fine giugno e vendette prima trentaduemila copie, poi altrettante e piú, viaggiò su un totale, credo, di ottantamila, facendo la nostra stupefatta felicità e la fortuna dell’editore. 

Rinverdimmo come un cespuglio dopo la pioggia. 

Qualche giorno dopo, Karol e io incontravamo Gilles Martinet – con Mitterrand sarebbe diventato anni dopo ambasciatore di Francia a Roma – che mi apostrofò giovialmente: «Allora vi cacciano dal partito? Me lo ha detto Amendola».

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