Dopo tanti annunci, alla fine Giorgia Meloni è arrivata in Ucraina. Commossa, ha portato il tributo degli italiani alle fosse comuni di Bucha, ha visitato Irpin, e poi è approdata al palazzo presidenziale per l’incontro con il presidente Volodymyr Zelensky. Ha constatato che «vedere coi propri occhi tutto questo è diverso», e ha aggiunto: «Penso possa aiutare anche gli italiani a capire». Ma mentre le sofferenze della popolazione ucraina sono sotto gli occhi di tutti, il governo Meloni non è altrettanto limpido sul suo impegno in Ucraina.

Le contraddizioni non possono che deflagrare, quando i cronisti assiepati davanti a Meloni e Zelensky chiedono conto del caso Berlusconi. Il presidente ucraino risponde lungamente, osserva che «il signor Berlusconi non ha mai dovuto scappare dalle bombe», e a nulla valgono gli sguardi di intesa che gli lancia Meloni: il fantasma del leader di Forza Italia basta a rovinare la missione. La premier si trincera dietro «i voti», i fatti. Ma le incongruenze riguardano anche i fatti, e i tre dossier che Meloni è andata a discutere a Kiev: sostegno politico, militare e cooperazione imprenditoriale.

Sul primo punto, la coalizione è confusa. Quanto agli aiuti militari, la scelta di Chigi di apporre il segreto sulle armi fornite non consente all’opinione pubblica di discernere il nostro coinvolgimento. E poi c’è il terzo punto, che è dall’inizio la grande scommessa dell’Italia: essere tra i primi a operare con le proprie imprese per la ricostruzione. Mentre Draghi aveva aperto la strada, Meloni arriva in ritardo e se la trova affollata di competitor.

L’indirizzo politico

«Potete contare sull’Italia, eravamo con voi dall’inizio e ci saremo fino alla fine», dice Meloni in Ucraina. Ed è vero, che la premier ha fatto del supporto a Kiev la propria etichetta. Anche se lunedì Biden ha trovato il tempo solo per telefonarle, Meloni sta costruendo il proprio percorso di accreditamento politico sul legame con Usa ed Est Europa. Il sostegno all’Ucraina è uno dei punti chiave sui quali le destre in Europa trovano una saldatura: anche la presidente Roberta Metsola, figura di raccordo tra popolari e meloniani, esibisce la stessa attitudine pro Kiev.

Tutto chiaro, quindi? No. Quando Meloni dice che gli italiani devono capire meglio, omette che proprio la sua coalizione è schizofrenica. L’eco degli attacchi di Berlusconi a Zelensky inquina la visita a Kiev. Poi c’è la Lega, che sconta le ambiguità sue e dei partner: basti pensare alle polemiche che stanno travolgendo il partito di estrema destra austriaco Fpö, compagno della Lega dentro Id, per il valzer organizzato a Vienna nell’anniversario dell’invasione, viste le voci su una partecipazione di 18 deputati putiniani sanzionati dall’Ue.

L’invio di armi

In questo contesto a dir poco agitato, la premier a Kiev ha detto: «Forniremo ogni genere di supporto». Cosa intenda esattamente lo sa solo lei, vista l’opacità imposta da Chigi. Prima del viaggio, Antonio Tajani aveva anticipato qualcosa. Il ministro degli Esteri si trova in una posizione scomodissima: da una parte, deve mostrarsi affidabile agli alleati, ancor più dopo che il leader del Ppe Manfred Weber lo ha indicato come il referente di Forza Italia sconfessando Berlusconi; dall’altra, deve scrollarsi di dosso le accuse di tradimento da parte dei berlusconiani. Tajani ha spiegato che «a breve manderemo il sistema missilistico Samp-T; per quel che riguarda i caccia, nel caso dovremo coordinarci con gli alleati; mi pare impossibile che vengano inviati caccia italiani».

Una versione che Meloni da Kiev ha confermato. Aggiungendo una nota: «Armi difensive, armi offensive… Quando un paese è aggredito, ogni arma è difensiva». E il punto è che a dispetto degli inviti «a capire», il governo ha escluso dal pubblico scrutinio quali armi inviamo. La legge 185 del 90 prevede che la scelta di spedire armi a un paese in conflitto vada convalidata dal Consiglio dei ministri previa consultazione del parlamento. Ma su quali armi, Chigi ha apposto il segreto; scelta non inevitabile: la Germania ad esempio ha reso le scelte di pubblico dominio.

La fila per ricostruire

«Gli interessi dell’Ucraina coincidono con quelli europei»: Meloni sostiene che «da oggi» l’Italia sarà protagonista della ricostruzione; è più corretto dire «da ieri», visto che era stato Draghi ad aprire la strada. Sbloccando lo status di candidata Ue per Kiev, aveva ottenuto sia di instradare l’Ucraina verso riforme che consentano investimenti sicuri, sia di porre l’Italia come apripista; dopo il suo viaggio con Scholz e Macron, in Ucraina era corsa Confindustria.

Ora l’Italia rischia di bruciare questo vantaggio: da settimane Chigi ventila una conferenza sulla ricostruzione, che a Kiev Meloni ha annunciato «per aprile». Intanto Varsavia e Parigi hanno già fatto il loro evento, Londra ha le date fissate a giugno, Berlino è sul dossier. E la strada si fa sempre più affollata di attori ingombranti.

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