Avevamo almeno un uomo per ogni famiglia che parlava direttamente con me e, rivelandomi in anticipo ogni mossa e ogni dettaglio, ero informato su tutto e tenevo d’occhio ogni mandamento e poi avevo i miei contatti, dei quali non mettevo a parte Riina ma che gli sono tornati utilissimi per amministrare il suo potere
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Il talento principale di Franco Di Carlo stava nelle relazioni. La sua attività legale di imprenditore spaziava dal commercio di prodotti caseari ai trasporti. Nata in gioventù, l’amicizia con il principe Alessandro Vanni Calvello di San Vincenzo9, discendente di una blasonata famiglia siciliana che nel 1980 ospitò nel proprio palazzo di Palermo anche la regina Elisabetta, gli ha permesso l’ingresso nel bel mondo.
Il sodalizio con l’aristocratico isolano si è del resto consolidato in un rap porto d’affari che porterà i due alla comune gestione del Ca stello, un locale notturno sulla riviera di San Nicola l’Arena, a Palermo, aperto in una delle proprietà dei Vanni Calvello. Quel night, con ristorante, sala congressi e sala trattenimenti, diventerà il crocevia degli incontri che faranno di Franco Di Carlo l’ambasciatore nel mondo della politica, quanto della magistratura e dei servizi segreti, passando per le professioni.
Sono entrato in Cosa Nostra, giovanissimo, nel 1961, ho vissuto tranquillamente senza noie con la legge per molti anni. Nel 1970 ero già considerato il personaggio di Cosa Nostra più in vista del mio paese. Tanto da guadagnarmi l’appellativo di sindaco.
Dal 1976, Franco Di Carlo è stato formalmente capofamiglia di Altofonte, mandamento di San Giuseppe Jato, ovvero clan dei Brusca, l’ortodossia corleonese di Liggio, prima, e di Riina e Provenzano, poi. Nel 1978 ha approfittato di una congiuntura favorevole, l’omicidio di un suo sottoposto de ciso a un livello più alto, e si è ritagliato un ruolo da soldato semplice alle dirette dipendenze prima del capomandamento di San Giuseppe Jato, Bernardo Brusca, e successivamente di Michele Greco, il papa, senza ulteriori intermediari.
Un’astuzia che gli ha risparmiato nel tempo molte delle contestazioni di responsabilità diretta nelle guerre di mafia combattute sul territorio, schivando anche l’accusa per l’omicidio Calvi. Il sapiente utilizzo delle regole dell’organizzazione, l’uso personalissimo dei precetti, il piegare le norme interne a proprio beneficio, gli ha permesso di restare in ombra pur avendo un ruolo rilevantissimo in quella consorteria criminale che fa dell’inganno un’arte di governo. Ha goduto della fiducia di Riina e Provenzano, ha inventato il controspionaggio interno a Cosa Nostra.
Avevamo almeno un uomo per ogni famiglia che parlava direttamente con me e, rivelandomi in anticipo ogni mossa e ogni dettaglio, ero informato su tutto e tenevo d’occhio ogni mandamento e poi avevo i miei contatti, dei quali non mettevo a parte Riina ma che gli sono tornati utilissimi per amministrare il suo potere.
I contatti di cui parla sono politici, magistrati, cancellieri, professionisti e uomini dei Servizi. È grazie a loro che Franco Di Carlo ha aggiustato processi, strappato visti su decreti di scarcerazioni, corretto perizie e fatto sparire fascicoli. E non solo.
IL PATTO ATLANTICO
Di Carlo, come abbiamo già accennato, racconta di aver portato Cosa Nostra a trattare per un piano golpista sotto l’egida della P2, la loggia massonica guidata da Gelli che annoverava nei propri elenchi i comandanti dei servizi segreti, ufficiali di tutte le armi, politici in ascesa, finanzieri d’assalto e manager di Stato.
La cricca che ha tenuto in scacco il Paese reale per molti anni ancora dopo la scoperta di quegli elenchi, nel 1981 a Castiglion Fibocchi. Un gotha capace di governare l’intelligence e piegarla ai propri scopi, di partecipare alla stagione del terrorismo ideologico, di depistare e inquinare la democrazia, rispondendo solo all’imperativo di scongiurare che il Paese sbandasse a sinistra. Aveva per questo soldi e armi e dialogava da pari con i poteri forti americani, solidamente ancorati alla dottrina Truman: combattere con ogni mezzo il comunismo ovunque si annidasse.
Ovvio che arruolasse fascisti riciclati, avanguardisti nostalgici e giovani abbacinati dal sogno di una restaurazione del regime, assieme a conservatori al servizio dei settori più retrivi della Chiesa e a uomini d’apparato di provata fede atlantica. Ovvio che custodisse gelosamente il segreto sull’esistenza di un’altra organizzazione segreta che entra costantemente in contatto con la P2: Gladio. Era questa l’articolazione italiana di Stay Behind, il programma elaborato dagli Usa per fronteggiare in armi un’eventuale svolta comunista nel nostro Paese, messo in campo fuori da ogni possibile controllo parlamentare. E su Gladio conviene soffermarsi prima di procedere oltre.
Scrisse su «la Repubblica» Giuseppe D’Avanzo il 6 novembre del 1990: «Se non fu la Nato, fu sicuramente la Cia a partorire Gladio. E da quando l’operazione partì sono cominciati i misteri d’Italia. Non tutti, com’è ovvio, possono trovare soluzione nell’attività di Gladio. In ogni caso i servizi segreti sono gli ospiti fissi, a volte con il sostegno dell’intelligence Usa, nelle tragedie senza responsabili che hanno scosso la Repubblica».
La data ufficiale di inizio dell’operazione Gladio è il 26 novembre del 1956, quando gli Usa, ossia la Cia, e l’Italia, ovvero il Sifar (Servizio informazioni forze armate) del generale Giovanni De Lorenzo, siglano l’intesa che aggiorna precedenti accordi di cooperazione segreta risalenti all’immediato dopo guerra. Il primo a parlarne fu William Colby, l’ex capo della Cia, che, lasciato il servizio attivo, raccontò in un libro di memorie di quali apparati si fosse servita l’intelligence Usa. Della sua esistenza si accorse per primo il giudice Felice Casson, indagando sui neofascisti di Ordine Nuovo, autori della strage di Peteano.
Pressato dal Parlamento, l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il 24 ottobre 1990, fu costretto ad ammetterne l’esistenza. E a svelare che non si trattava solo di una sonnacchiosa compagnia di arditi pronti a disseppellire le armi, ma di un’organizzazione militare, con arsenali, nascondigli e basi di addestramento, dipendente dai servizi segreti italiani, convertitasi a metà degli anni Ottanta alla ricerca di informazioni su criminalità, droga e terrorismo.
Dunque: Gladio è un’organizzazione militare segreta, retaggio dello sbarco alleato in Italia, pronta a intervenire in caso di pericolose derive comuniste. Cosa abbiano fatto i gladiatori durante la stagione del terrorismo non è noto. Stando ai pochi elementi ufficiali si limitano a tenersi pronti. Uno stato di allerta permanente che perdura quando l’organizzazione a cui appartengono viene riconvertita a scopi di intelligence e polizia.
Di questa attività “interna” anche in funzione antimafia parleranno sia l’ex colonnello del Sismi Paolo Fornaro, a capo della base Gladio di Trapani denominata Centro Scorpione, che Benito Rosa, ex numero due del Sismi. Fornaro guidò il Centro Scorpione nell’87, gli subentrò poi fino al 1990 il maresciallo Vincenzo Li Causi, ucciso nei pressi di Mogadiscio il 12 novembre del 1993.
«Avevamo il dubbio – raccontò Fornaro nel 1993 per spiegare in che modo dei combattenti fossero finiti a occuparsi di mafia – che Cosa Nostra, come già fa in America, si mettesse ad organizzare l’immigrazione clandestina dai Paesi arabi, la quale magari subisce la spinta dell’integralismo islamico». Una preoccupazione che evidentemente ritorna e che a distanza di quasi trent’anni autorizza analisi dello stesso tenore di fronte alla minaccia dell’Is.
Ma qui, con Fornaro, siamo a metà degli anni Ottanta. Allora i gladiatori recuperavano parte dello spirito che era sotteso alla loro istituzione ma, dopo la riconversione, era al mondo arabo e alle dinamiche mafiose che rivolgevano lo sguardo e non più a Mosca. Un’attività, quella dei gladiatori, che rivela preoccupazioni ben più lungimiranti di quelle che allora si percepivano negli apparati ufficiali. In definitiva, per conoscenze o per intuizioni, dalle parole di Fornaro emerge una conoscenza e una percezione del fenomeno mafioso ben più articolata di quanto non fossero disposti ad ammettere gli apparati investigativi tradizionali.
Del resto, comunque la si pensi, da soggetto politico, pur con la rozzezza del ragionamento che è proprio di uomini dal curriculum criminale ben più vasto di quello intellettuale, Cosa Nostra sa muoversi sullo scacchiere planetario con accortezza. Le reti criminali sono realtà consolidate e per fama e prestigio, per la tradizione che ne ha consolidato l’importanza, la mafia siciliana, pur subendo colpi su colpi, era ed è ancora oggi un nodo imprescindibile di quelle reti.
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