Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Saranno necessari un’altra visita e altri colloqui riservati per delineare un quadro dai contorni più netti.

Non so dire quante settimane siano trascorse dall’interrogatorio ufficiale con i magistrati italiani, ma di sicuro non si è trattato di molti mesi. Un giorno mi avvisano che ci sono degli amici miei che mi vogliono vedere e salutare. Chiedo chi siano. E mi dicono che sono dell’Home Office, l’equivalente del nostro ministero dell’Interno. Vado a incontrarli e davanti a me trovo tre persone più o me no cinquantenni che si presentano in modo molto socievole ma che io non conoscevo. Due dei tre erano molto cordiali e sembravano davvero degli amici. Io esordisco dicendo che mi avevano avvisato che c’erano degli amici che mi volevano salutare e per questo ho accettato di andare in sala colloqui, ma aggiungo: non credo di conoscere nessuno di voi. Due dei tre erano italiani, l’altro certamente inglese. Uno dei due italiani mi tira da parte, si presenta, mi dice che si chiama Giovanni, aggiunge che mi conosceva personalmente ma che ero io a non ricordarmi e aggiunge che mi portava i saluti di Mario.

È solo un nome ma, come avremo modo di vedere, non è un nome qualsiasi nella ricostruzione di questa storia.

Mario era un tenente o un capitano dell’esercito italiano. Era un uomo possente, molto simpatico e di un umorismo unico, era del Sud, non ricordo se fosse salentino o calabrese.

Lavorava nei servizi segreti italiani e io lo avevo conosciuto alla fine del 1979 o inizio del 1980 in occasione di una riunione che c’era stata in una località del Lazio con il generale Giuseppe Santovito, già allora direttore del Sismi (dove è rimasto dal gennaio del 1978 all’agosto del 1981), e altre persone. Consideravo Santovito un amico e credo che la cosa fosse reciproca, in quella riunione avevo assistito alla discussione di faccende molto delicate. Era una riunione della quale sapevamo solo pochissime persone, per questo il riferimento preciso di Giovanni al generale e agli anni in cui mi aveva conosciuto era così una garanzia che non stesse bluffando. Giovanni mi racconta cosa si erano detti con Mario. Passiamo a darci del tu e lui nella foga della conversazione mi chiama Franco ma anche Carlo, forse per via del mio cognome.

Mi dice: te lo riferisco in modo che tu ti possa rilassare visto che ti vedo restio a conversare e che ti tieni sulle tue. Mi racconta che Mario gli aveva parlato di me e dei rapporti che avevo con “Sua Eccellenza”, ovvero Santovito, e della considerazione di cui godevo nei loro ambienti, insieme con il particolare che certamente erano in pochi a conoscere della mia partecipazione alla riunione svoltasi nel Lazio. Capisco da questi dettagli che stava dicendo la verità e che davvero doveva avermi visto alla riunione, ma aggiunge che anche in al tre occasioni aveva avuto modo di vedermi insieme con Mario. Cosa assolutamente plausibile, visto che nei due anni in cui ero rimasto a Roma avevo preso a frequentare Mario con una certa regolarità.

Le indicazioni che Giovanni fornisce servono a sciogliere il clima, ora Franco Di Carlo sa che ha davanti delle persone che non conosce ma delle quali può fidarsi, hanno credenziali di tutto rispetto e soprattutto sono a conoscenza di dettagli che solo chi è dentro a certi rapporti può conoscere.

Così ci avviciniamo agli altri e Giovanni mi presenta l’altro italiano che mormora il suo nome ma che ricordo di non aver memorizzato in quella occasione. Mi colpisce solo la sua voce rauca e molto bassa. Il terzo era un inglese di nome Nigel. Chiedo se tutti e tre lavorassero all’Home Office e Giovanni mi risponde: no, io faccio lo stesso lavoro di Mario. Il suo collega italiano fa un gesto di assenso per rimarcare che anche lui era nello stesso ufficio di Giovanni, mentre Nigel mi dice che sì, è in un ufficio che dipende dall’Home Office.

La conversazione si sposta sulla situazione italiana.

Chiedo di Mario, di come se la passasse in Italia e se fosse ancora impegnato in giro per il mondo. L’ultima volta che lo avevo visto era stato a Roma più o meno nel 1984, quando un amico comune era deceduto. Giovanni mi parla di Mario e aggiunge altri dettagli, dimostrando di conoscere molte cose sul mio conto e sul genera le Santovito. Il generale era morto da qualche anno (a Firenze nel 1984), quando io ero ancora libero. Sapevo che si era ammalato dopo aver attraversato un periodo molto difficile, tra l’81 e l’82 e finendo agli arresti per qualche giorno. Giovanni mi dice: vedi come vengono trattati grandi personaggi delle istituzioni nel nostro Paese?

Come due persone che non si conoscono ma che hanno parecchio in comune, Franco Di Carlo e Giovanni, alla presenza di Nigel e dell’altro italiano, discutono della situazione italiana dal loro punto di vista.

A quel punto chiedo a Giovanni quale fosse il motivo della loro visita. Lui fa una premessa: noi non siamo qui per farti collaborare o per avere informazioni o per fare arrestare qualcuno. Perché, come tu sai, io svolgo tutt’altro lavoro e tu mi capisci. Siamo qui per chiederti, se ti è possibile, di darci una mano per far cessare in Sicilia, e in particolare a Palermo, lo sterminio che è in corso e fare in modo che loro stessi, cioè gli uomini di Cosa Nostra, non si autodistruggano.

Non c’è molto da interpretare: ancora una volta uomini delle istituzioni bussano alla porta di un padrino per chiedere pace nel comune interesse: per lo Stato si tratta di placare l’allarme creato dai morti per le strade, per i boss di Cosa Nostra di tornare alla vecchia tranquilla coesistenza che ha garantito buoni affari e un graduale aggiustamento dei processi. Giovanni sa che può far leva su Franco Di Carlo.

Sappiamo quanto tu sei stato abile nella diplomazia negli anni passati. E sappiamo pure quanto Riina ti ascoltava e quante cortesie gli hai fatto. Ti chiediamo se puoi farci avere un contatto con una persona, che sia intelligente e valida, per poter parlare con i Corleonesi. In modo che si possa fare cessare questa guerra e si raggiunga una tranquillità in Sicilia.

Giovanni sa di parlare a un capomafia e non ha bisogno di molti giri di parole, espone lo stato di necessità in cui le istituzioni rischieranno di trovarsi e illustra un futuro fosco per l’organizzazione.

Se le cose non cambieranno spunteranno tante nuove leggi repressive e nuove strutture per combattere la mafia. In Sicilia rischia di finire peggio che nel periodo del prefetto Mori.

È la realistica prospettiva di uno Stato che reagisce quando è all’angolo e lo fa con grande dimostrazione di forza. Per gli uomini di mafia è lo spettro di nuove retate, anni di confino carcerario, lontano dai propri territori. E dai propri affari. Tanto più che è già finito il maxiprocesso in primo grado, Cosa Nostra ha potuto regolare molti conti in sospeso e ora attende che i propri referenti nella politica e nelle istituzioni si diano da fare per cancellare quel che il processo ha significato: la fine dell’impunità. Bisogna avere pazienza, ma chi è finito dentro ha chiara la percezione che i tempi stanno cambiando, che con Falcone a lavorare giorno e notte sull’onda delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sta per chiudersi definitivamente una pagina della storia della mafia siciliana.

Riina in quel periodo si trovava in grande difficoltà dentro Cosa Nostra, sentiva il peso della responsabilità della guerra che aveva scatenato in tutta la Sicilia e vedeva le famiglie dei suoi uomini rovinate sia economicamente che personalmente e tanti non dicevano nulla per paura, però con i suoi era cosciente che aveva sbagliato tutto e che a lungo termine gliel’avrebbero fatta pagare. Così sapevo che avrebbe fatto patti pure col diavolo per far andare bene i processi, sia quelli in corso sia quelli che erano davanti alla Suprema Corte. Conoscendo Riina profondamente immaginavo come avrebbe esultato se fosse riuscito a fare annullare processi davanti alla Cassazione e a fare assolvere gli altri nei processi che si dovevano celebrare. Avrebbe esultato come l’avevo visto esultare quando mi interessavo di qualche processo all’inizio degli anni Settanta e le cose erano andate bene.

Torniamo a quel colloquio in carcere. Giovanni ha ben chiaro il quadro e gioca la sua carta migliore.

Mi dice: se riusciamo a fare un patto, penso che anche il maxiprocesso che andrà in Cassazione potrebbe andare bene. Ma anche altri processi potrebbero risolversi. Aggiunge: peccato che una persona come te debba stare qui dentro. Ma se le cose si mettono bene, stai tranquillo che tu verrai in Italia e là possiamo fare tutto il possibile perché tu possa riacquistare la libertà che meriti. Vedendomi un po’ scettico, aggiunse: credimi, non ci sono ostacoli quando si mette in campo una buona diplomazia. Per adesso non ti dico altro. Ma ti basta vedere come abbiamo fatto per portarci via dal carcere svizzero un po’ di anni fa Licio Gelli. Per questo ti chiedo di procurarmi un contatto importante con qualcuno che possa parlare direttamente con i Corleonesi di Riina, una persona sicura e affidabile e che non sia uno della manovalanza. La prospettiva di Giovanni era molto allettante.

Io avrei ancora potuto fare qualcosa per Cosa Nostra e rispondere alle richieste di Totò Riina che più volte, attraverso chi riusciva a parlarmi al telefono della prigione o attraverso messaggi che mi venivano recapitati per posta, mi aveva fatto arrivare una sollecitazione a riattivare i vecchi contatti e a darmi da fare per risolvere i problemi giudiziari degli uomini d’onore.

Ero ben consapevole che Riina non meritasse in alcun modo che io mi spendessi, ma conoscevo tanta gente che lui stesso aveva rovinato esponendoli ai rigori della legge, puntando solo al proprio tornaconto.

D’altro canto, Giovanni aveva saputo porgere argomenti convincenti e si era mostrato molto in gamba nel precisarmi subito che da parte sua e di chi lo mandava non c’era alcuna intenzione di spingermi a collaborare o a chiedermi informazioni per far arrestare qualcuno. In quel momento, però, non avevo chiaro se loro puntassero solo a far cessare la guerra di mafia e fare buona figura con lo Stato. O se ci fosse sotto dell’altro.

Franco Di Carlo aveva ragione di dubitare delle intenzioni degli uomini che gli stavano di fronte. Messa nei termini in cui l’aveva posta Giovanni era uno scambio come tanti nella storia della mafia e dell’antimafia. Non appena l’asticella della violenza subiva un’impennata era subito lo Stato a chiedere una tregua, a lavorare ai fianchi dei moderati dell’organizzazione per ottenere la fine delle ostilità. E Cosa Nostra aveva già pagato sulla propria pelle l’ondata repressiva che era seguita alla stagione delle giuliette al tritolo. Dopo la strage di Ciaculli del 1963 la commissione aveva dovuto sciogliersi e così anche le famiglie e la gestione ordinaria fu affidata a un segretario. Solo dopo alcu ni anni, con il triumvirato che aveva spianato la strada all’ascesa dei Corleonesi, si era ricostituito un organismo di vertice che aveva reso l’organizzazione più forte e radicata di prima. Ma questa volta la guerra non era solo per le strade. Intorno alla celebrazione del maxiprocesso, alle indagini che l’avevano preceduto, ai successi giudiziari che ne erano conseguiti, era nello Stato che si combatteva una battaglia senza esclusione di colpi. Le ostilità si consumavano tra i palazzi del potere con un tiro incrociato di vendette e veleni che solo in parte finivano all’attenzione dell’opinione pubblica. Quella nuova stagione di lotta alla mafia impensieriva non soltanto Cosa Nostra. Nello Stato erano in molti a temere. Finiva il tempo della coesistenza, le istituzioni si sarebbero dovute collocare da una parte precisa del campo, e chi provava a stare in mezzo tradiva anni di compromessi ora divenuti intollerabili. Le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, la sentenza ordinanza del maxiprocesso e il verdetto letto nell’aula bunker dell’Ucciardone sancivano che la mafia era una realtà consolidata forte dell’appoggio storico di pezzi delle classi dirigenti grazie alle quali aveva prosperato, affermandosi come un interlocutore privilegiato per la politica e l’imprenditoria nell’Isola.

Il maxiprocesso dimostrava che la coesistenza però aveva avuto prezzi altissimi e che in tanti si erano resi moralmente corresponsabili dei crimini di Cosa Nostra. Sul piano pratico, il metodo Falcone puntava a consolidare la giurisprudenza di merito che si era creata con il primo tassello del maxiprocesso e a sviluppare le indagini sul solco tracciato dagli elementi ottenuti dal successo giudiziario che aveva coronato le prime collaborazioni dei cosiddetti pentiti.

L’unanimismo, spesso interessato, che si registrò nelle sperticate lodi postume a Falcone, quando il magistrato era in vita, era, al contrario, un coro scomposto di invettive che coprivano l’intera gamma delle possibilità, dalla calunnia all’insulto contrabbandato da un garantismo che non aveva nulla di genuino. L’apparato sapeva che se Falcone avesse solo proseguito nella sua azione, un intero sistema rischiava di finire in ceppi.

Giovanni conclude il dialogo chiedendomi più volte: allora ce la dai una mano? Io rispondo: dipende. E aggiungo: non vedo che aiuto posso darti da dove mi trovo io. Poi, poco prima che andasse via, aggiungo: Giovanni, visto cosa mi hai chiesto, io penso che non hai bisogno di un uomo qualsiasi per poter parlare con i Corleonesi, ma hai bisogno di una persona importante di Cosa Nostra che sappia parlare con Riina e sappia parlare anche di politica. E io ti posso indirizzare solo da due persone. Lasciami fare e dammi un po’ di tempo. Se vuoi, mi puoi chiamare al centralino della prigione dicendo che sei il mio avvocato italiano che chiama dall’Italia, mi passeranno di sicuro la telefonata e se io sarò già pronto con una risposta ti dirò di tornare.

Il terzetto si congeda da Franco Di Carlo, ma evidente mente Giovanni e chi sta sopra di lui ha una gran fretta di portare a termine l’operazione che è appena cominciata.

Prima Nigel e poi anche Giovanni mi telefonano più volte, fin ché io non gli dico di venirmi a trovare.

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