Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Di quell’anno e mezzo trascorso in carcere mia madre e mio padre condividevano il ricordo della tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati all’Ucciardone.

Venivamo condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare, dovevamo infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a noi – ecco che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione – Sembrava un girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte, un’altra porta di ferro con altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un corridoio con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi sentire era urlare a squarciagola.

Papà rimase praticamente muto e io piansi così tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che ero incinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo prevedevano. Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico.

E mio padre aggiungeva, con un sorriso agrodolce:

Avevo seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero accanto a lei – lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di cogliere pienamente il senso di quanto stava accadendo – e quando, appena partorito, venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo.

Proprio così – a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la parola – e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice, per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria all’Assemblea Regionale Siciliana.

Non c’era polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere e della natura dell’uomo.

Dai loro ricordi affiorava, nettamente, l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di consegnargli tra le braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di felicità.

Lo fece al posto suo una guardia carceraria. Portò a mio padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di sacchetto.

Fu una scena per me un po’ patetica – rammentava mio padre – ero confuso e, forse, questo è stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre.

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