Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Era una serata di primavera del ’60 e, davanti al cancello di casa, mamma e papà stavano salutando zio Giuseppe, fratello maggiore di mamma, e sua moglie, zia Melina, che erano stati a cena da noi, con Franco e Roberto, i nostri cugini. Franco aveva un anno in meno di mio fratello Filippo e Roberto un anno in più di me, con la particolarità che quest’ultimo ed io eravamo nati, entrambi, il 25 giugno. Una coincidenza che, quando si è ragazzi, stimola a costruire fantasie e cercare affinità. In ogni caso, non so se sia dipeso da questa coincidenza ma Roberto ed io, anche se siamo stati lontani a lungo e pur vivendo in città diverse, conserviamo affetto e confidenza, come se non avessimo mai smesso di frequentarci.

Mio fratello e Franco si sfidarono ad una gara di corsa: un circuito lungo duecento metri di marciapiede, che si stendeva intorno a casa dei nonni e alle altre due villette, che costituivano un isolato unico. La gara sarebbe stata a coppie: io avrei corso con Franco e Roberto con mio fratello. Al termine del primo giro, non mi ricordo chi fosse in testa, decisero di farne un secondo, che non completai. Infatti, a metà percorso, inciampai e feci una sorta di spaccata, procurandomi una brutta lesione al femore della gamba sinistra. Per fortuna che zio Giuseppe aveva studiato Medicina e sapeva come fare una fasciatura a doccia, che mi bloccò la gamba, contenendo la lesione ed evitando la frattura che, a quell’epoca, avrebbe richiesto l’inserimento di un chiodo e mi avrebbe certamente reso zoppo. Il professor Buzzanca, ortopedico al Traumatologico, m’ingessò dal tallone della gamba sinistra fino al torace, e così dovetti restare per novanta lunghissimi giorni.

A tre anni, obbligato a restare, praticamente immobile, a letto per tre mesi. Immaginate quanta energia compressa dalla mancanza di sfogo. La pelle prudeva, privata del necessario ossigeno, soffocata dall’ingessatura; unica consolazione uno spray al mentolo, spruzzato per alleviare la sofferenza. Poi seguì un’ingessatura “semplice” alla gamba sinistra, per un altro mese, e quindi, a quattro anni, dovetti imparare nuovamente a camminare. Usavo un girello per sorreggermi: si trattava di un aggeggio di legno, alto mezzo metro e di forma quadrata, aperto su un lato, che grazie alle rotelle mi permetteva di deambulare in equilibrio.

Ricordo che una mattina, quando ormai stavo riacquistando sicurezza e, per mettermi alla prova, lasciavo il girello e saltellavo sulla gamba destra nel giardino di casa, urlai a Nicola Cipolla, che era venuto a trovare mio padre e si era affacciato in giardino: “Guarda come sono bravo!” E lui rispose: “Sembri uscito dalla novella di Chichibio”.

Io, che non avevo ancora letto il Decameron di Boccaccio, rimasi interdetto, e Nicola ne approfittò per raccontarmi la storia di Chichibio e la gru, che riposava su una gamba sola. Nel frattempo, si erano aggiunte la mamma, nonna Carmelina e zia Agata, e quel giorno fu coniato il mio nomignolo Chichì, usato ancora oggi con affetto da alcuni dei miei parenti e da qualche ex compagno di classe. Mio padre preferiva Tegher, il diminutivo di Tegherzio, che era compagno di Tiburzio, ed io pure.

Nicola Cipolla era segretario della Federterra e, insieme a mio padre, aveva organizzato le lotte contadine del 1949-1950 nel corleonese. Parlamentare prima dell’Assemblea Regionale Siciliana e poi del Senato e del Parlamento europeo. Sostenuto da papà, nel 1981 fondò il Centro studi di Politica Economica in Sicilia, di cui è attualmente Presidente.

Così scorreva la mia infanzia, ignaro di quale fosse il mestiere di mio padre. Infatti, all’inizio della primina, destino che tocca a quelli, come me, nati in giugno e che i genitori ritengono in grado di cominciare le scuole elementari un anno prima, mi capitò che la maestra mi chiedesse che lavoro facesse mio padre. Dopo qualche esitazione, risposi che leggeva e scriveva. Almeno, era quello che gli vedevo fare quando stava a casa ed era quello che mia madre ripeteva, quando non voleva che fosse disturbato: non fate confusione... sta leggendo… sta scrivendo. La maestra ne dedusse che papà facesse il giornalista.

Il disordine che regnava sulla sua scrivania faceva impazzire mamma e la capivo. Anche per me sarebbe stato pressoché impossibile ritrovarmi in mezzo a quella confusione.

Pile di fogli, di cartelle di documenti, di giornali, tra i quali, invece, lui si sentiva a proprio agio e ritrovava sempre quello

che cercava. Mio padre era un buon giocatore di briscola, tresette, scopa e scopone. Capitava che, prima di sederci a pranzo, facessimo una partitina, in piedi, generalmente a briscola. I primi tempi vinceva sempre lui. Poi ho imparato. Era divertente quando perdeva, perché non accettava la sconfitta e mi proponeva di giocare un’altra partita. Oltre a quello per il gioco delle carte, ho condiviso il suo amore della natura, dell’attaccamento alla terra, la toccava e sceglieva i frutti per assaporarli con gusto, spesso offrendoli agli altri, e strofinando erbe e foglie, per poi portarsele con le mani sotto il naso e godere degli aromi di cui erano intrise.

Durante le nostre passeggiate, giunti in uno spazio aperto, capitava che lanciasse la sfida di una breve corsa a mio fratello Filippo e presto mi aggiunsi anch’io. Uno scatto fino ad un immaginario traguardo, dove si fermava a respirare l’aria fina che apprezzava a pieni polmoni. Non aveva praticato sport in gioventù, almeno come intendiamo oggi. Gli piaceva giocare a calcio o a pallavolo, per stare insieme agli altri, non certo per dare dimostrazione di tecnica. Aveva imparato a tenersi a galla tuffandosi, insieme a fratelli e amici, nella “gebbia”, la grande cisterna di cemento che serviva a irrigare i giardini di agrumi di Altarello, e nuotava, senza stile né timore, come esercizio fisico per tenersi in forma, come la ginnastica nel periodo del carcere.

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