Termini Imerese è stata una tappa decisiva per la mia carriera, lì tornerò nel 2003 con le funzioni di Presidente del Tribunale. Ma soprattutto porto Termini Imerese nel cuore perché lì mia moglie e io abbiamo concepito nostro figlio Michele.

In seguito, su mia domanda, sono stato trasferito al Tribunale di Palermo dove, dopo una breve permanenza presso la Seconda Sezione Penale, il 2 gennaio 1980 sono approdato all’Ufficio di Istruzione. Qui sono rimasto sino all’11 gennaio del 1995.

Alla Seconda Sezione Penale trovai un presidente che, per fortuna, comprese il mio desiderio di assumere le funzioni di giudice istruttore e perorò la mia “causa” presso il Presidente del Tribunale. Non ringrazierò mai abbastanza quel collega a cui devo l’inizio della mia “avventura” presso l’Ufficio di Istruzione di Palermo.

Ricordo che, quando tutto ebbe inizio, festeggiammo con una bottiglia di champagne. Prima, al momento di lasciare la Seconda Sezione Penale, il Presidente mi gratificò di una lettera di elogio perché in poco più di dieci mesi avevo redatto, oltre a ordinanze e decreti, circa cento sentenze, delle quali 25 depositate il 14 agosto, durante il periodo feriale del 1979.

Tutta quella produttività, però, avrebbe potuto giocare a mio sfavore perché il Presidente del Tribunale Franco Romano, che disponeva le assegnazioni, faceva parte di quella vecchia scuola che, senz’altro in buona fede, riteneva che all’Ufficio di Istruzione dovessero essere assegnati magistrati non particolarmente idonei per i collegi giudicanti penali e civili. Quando ci penso mi viene da sorridere perché a quella incomprensibile “selezione” sono sfuggiti, per fortuna, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati che hanno cambiato la storia della magistratura in Italia, che hanno “inventato” quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è stato il Maxiprocesso, sotto la sapiente guida di Rocco Chinnici prima e di Antonino Caponnetto dopo.

Come cambiano i tempi.

D’altronde di mafia non si parlava, ci si occupava di altre realtà delinquenziali e molti magistrati pensavano che il vero esercizio del diritto stesse altrove, non certo in quell’ufficio che in fondo era un po’ roba da sbirri. Ovviamente, invece, la rivoluzione partì da lì. Ma questo serve per comprendere lo spirito dell’epoca: molta era la distanza che ci separava dai tempi attuali.

Appena arrivato a Palermo mi sono occupato di un grosso processo per sofisticazione di vino a Partinico, in quegli anni la capitale italiana della sofisticazione vinicola. Facevano il vino con lo zucchero, in paese c’erano serbatoi sotterranei di cemento armato dove si nascondeva il vino adulterato. Che altro? In ufficio ho trovato poi un armadio pieno di fascicoli contenenti gli atti di indagini relative a rapine, omicidi e sequestri.

Mi fu assegnato anche il procedimento a carico di Francesco Marino Mannoia, allora non ancora collaboratore di giustizia, alla cui latitanza pose fine il dottor Beppe Montana, capo della sezione “catturandi” della Squadra mobile della Questura di Palermo, grazie all’intercettazione di una conversazione telefonica tra il Mannoia e la sua amante Rita Simoncini, nella quale i due prendevano accordi per incontrarsi nel rifugio in cui il Mannoia trascorreva la latitanza. Nel corso dell’irruzione dei poliziotti, Rita Simoncini accusò un malore al seguito del quale perse i due gemelli che teneva in grembo, frutto della sua relazione con il Mannoia.

Ricordo che Montana mi chiese se fosse possibile estromettere dal rapporto inviato alla Procura, a me assegnato per la formale istruzione, il suo nome quale responsabile dell’operazione di polizia. Ma il fascicolo processuale era stato sicuramente fotocopiato, era passato per diverse mani, per cui feci presente che l’unica possibilità sarebbe stata quella di farmi pervenire una nota con la quale mi informava che, in realtà, non aveva partecipato all’operazione e che il suo nome era stato erroneamente inserito nel rapporto. Erano già tempi difficili, la tensione era alta.

Aveva paura di una eventuale vendetta e temeva per la sua vita? Ma non fu questo singolo fatto che ne decretò la morte. Montana fu assassinato perché a Cosa nostra facevano paura il suo coraggio e la sua determinazione nella caccia ai latitanti.

Approdato all’Ufficio di Istruzione, finita la felice esperienza presso la Seconda Sezione Penale, ho avuto l’opportunità di incontrare di nuovo Falcone e Borsellino dopo i tempi lontani dell’università quando, sia pure fuggevolmente, era capitato di incrociarci in attesa di “dare” una materia o di passeggiare nell’atrio della facoltà di giurisprudenza.

Parlando del più e del meno, Falcone e io scoprimmo di essere stati nominati presidenti di seggio a Bagheria, in occasione di una consultazione popolare (non ricordo se si trattasse di elezioni comunali o nazionali). All’epoca Giovanni non era stato ancora incaricato da Rocco Chinnici di istruire il procedimento contro Rosario Spatola, pertanto non era ancora sottoposto a servizio di scorta.

Allora ci organizzammo in modo che, a turno, ognuno di noi utilizzasse la propria autovettura (la mia Alfa Romeo grigia e la sua Alfa Sud bianca) per raggiungere Bagheria nei giorni delle votazioni. Durante i tragitti, ricordavamo le rispettive esperienze di lavoro vissute dall’entrata in carriera (Giovanni alla Pretura di Lentini e poi alla Procura della Repubblica di Trapani), ma mai avremmo potuto anche soltanto immaginare cosa il destino avrebbe riservato a entrambi negli anni successivi. Ed è proprio di questo che desidero parlare, del pool, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Peppino Di Lello e degli altri colleghi, Giacomo Conte, Ignazio De Francisci e Gioacchino Natoli, che ci hanno affiancato dopo il trasferimento di Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala. Voglio tornare a parlare di Antonino Caponnetto e del Maxiprocesso. E di tanto altro. Perché tanto, di bello e di brutto, è accaduto in quegli anni a Palermo.

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