Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


È il 5 marzo del 2005, sono a bordo di un vecchio Super 80 dell’Alitalia prossimo alla pensione, o a una nuova esistenza nel sud del mondo, diretto a Palermo. Sono passati tredici anni da quando mi richiamarono dalle ferie, subito dopo la strage di via D’Amelio; come già successo per la strage di Capaci, anche in quell’occasione pensavo di dover scendere a Palermo, magari di doverci restare a lungo, ma anche quella volta del mio ufficio non scese nessuno, e ci occupammo di altro.

Altro per modo di dire: a novembre del 1992 con le dichiarazioni di Leonardo Messina portammo a termine l’operazione “Leopardo”, a Caltanissetta, poi a Como altri 380 arresti in quella che credo sia ancora la più imponente operazione – per numero di arresti – mai fatta nei confronti della criminalità organizzata di tipo mafioso, le catture di capimafia latitanti del calibro di Giuseppe “Piddu” Madonia e di Nitto Santapaola; poi le indagini per il sequestro Soffiantini e la missione in Australia dove era stato localizzato uno dei responsabili, Giovanni Farina; la missione a Padova e l’arresto del serial killer Michele Profeta e tante altre storie, ciascuna delle quali, da sola, meriterebbe d’essere raccontata per filo e per segno ma ho scelto di riprendere da qui, dal 2005, dal mio ritorno a Palermo, per chiudere il cerchio di quel percorso ideale iniziato scortando un pentito tanti anni prima.

Fino a febbraio ero stato a Siracusa, per collaborare nelle indagini sull’incendio di un pub, del quale la stampa s’era parecchio interessata, ma Gilberto Caldarozzi, nel frattempo diventato il direttore della mia divisione, me l’aveva detto chiaro: – Mauri’, sta partendo un gruppo di lavoro a Palermo con la Catturandi, e io ci metto tutta la tua sezione, tre gruppi di cinque e turni di dieci giorni, la dirige Renato Cortese e dovete iniziare subito. Scegliti il gruppo e organizzati. Nel corso degli anni, prima al Nucleo Centrale Anticrimine e poi al Servizio Centrale Operativo, di funzionari ne avevo visti passare tanti, ma la sostanza era sempre la stessa: loro dicevano una cosa e noi dovevamo solo prenderne atto, almeno inizialmente, ma Caldarozzi era stato mio collega di corso, a Nettuno, nel 1983, e mi ero sempre sentito in diritto e in dovere di opporgli obiezioni, al bisogno. – Doc, – azzardo – ho qualche perplessità. Mia nonna diceva sempre “chiesa grande, devozione poca”, sicuro che dobbiamo scendere tutti? E poi i turni di dieci giorni non sono troppo brevi? Un giorno per andare e sistemarsi, l’ultimo per tornare e ne restano otto… poi uno sta via tre settimane e quando torna si deve andare a rivedere e a rileggere da capo quello che è successo nel frattempo… Non mi contraddice, ed è già tanto: – Senti, se tu vuoi stare fuori turno e rimanere di più non c’è mica problema! Intanto partiamo così, casomai ci si aggiusta strada facendo, e poi la Squadra Mobile di Palermo ce ne mette venti, tutti della Catturandi, e dobbiamo fare metà e metà… Vabbe’, mi dico, iniziamo ad andare e “comu finisci si cunta”.

In sostanza si tratta di un ritorno: a Palermo, dal 1988 in poi, c’ero stato un’infinità di volte, ma si era sempre trattato di missioni relativamente brevi, una settimana o dieci giorni al massimo, e mai per indagini lunghe. C’era stata una sola eccezione, proprio per le ricerche di Bernardo Provenzano, tra il 1994 e il 1995, quando ero stato inserito in un piccolo gruppo di lavoro con personale del Commissariato di Corleone e della squadra mobile di Palermo.

Eravamo pochi, una decina o giù di lì, e facevamo base in alcuni locali del palazzo delle Poste, in via Ausonia, e con quella composizione andò avanti per sette o otto mesi.

La famiglia Provenzano “controllata”

L’attività era concentrata sulla famiglia del latitante, avevamo delle microspie e un localizzatore Gps sulla Fiat Uno che utilizzava Angelo Provenzano, il figlio maggiore. Sulla stessa macchina, montata dietro la mascherina anteriore, c’era anche una telecamera, che nelle nostre intenzioni ci avrebbe dovuto far vedere i luoghi dove si fermava.

Forse la tecnologia a quei tempi non era abbastanza matura, non so, fatto sta che di quello che si diceva a bordo del mezzo intercettato si sentivano solo frammenti di conversazione, perché coperti da continue scariche e dall’autoradio sempre accesa, la localizzazione gps era alquanto approssimativa, e se in occasione di qualche pedinamento a Palermo l’auto veniva persa di vista, ritrovarla attraverso le coordinate del gps diventava un’impresa.

La telecamera in compenso funzionava, ma bastavano cento metri di trazzera polverosa per coprire completamente la lente. Col fango, poi, era pure peggio: bastavano due pozzanghere e fine delle trasmissioni! Tutti gli apparati, inoltre, si alimentavano dalla batteria della povera Fiat Uno, col risultato che spesso andava giù di carica.

La famiglia Provenzano era ricomparsa a Corleone nell’aprile del 1992 e nel 1994 abitava a poca distanza dal Commissariato di Polizia, in via Verdi, in un appartamento che si affacciava in strada, dove di solito era parcheggiata la Fiat Uno.

Questo di giorno, perché di notte molto spesso la macchina veniva presa da noi e portata in un box del Commissariato per regolare le apparecchiature, pulire la lente della telecamera e ricaricare la batteria; una volta arrivammo addirittura a sostituirla con una di maggiore amperaggio, nella speranza che diminuissero i problemi, ma con scarsi risultati.

Per tutte queste operazioni tecniche certe volte se ne andavano anche un paio d’ore, ed eravamo costretti a parcheggiare al posto della Fiat Uno dei Provenzano un’auto dello stesso tipo e colore per il tempo necessario. Insomma, buona volontà ce ne avevamo messa, ma era impossibile che non se ne fossero mai accorti. A tutto questo pensavo mentre il Super 80, dal lato di Terrasini, allineava il muso alla pista di Punta Raisi.

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