Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.


È una mattina di novembre del 2007. In un casolare della località Giardinello, a quaranta chilometri da Palermo, è in corso un summit.

Quattro persone, attorno ad un tavolo, esaminano il loro “archivio mobile”: block notes, agende e biglietti scritti a penna con cura. Consultano elenchi con centinaia di nominativi. Scorrono una lista di commercianti, professionisti e imprenditori di Palermo: 5.000 euro al mese per un supermercato al centro della città; 10.000 euro per i cantieri delle ristrutturazioni nel centro storico; il consueto tre per cento sugli appalti pubblici. Sono i nomi di quelli che pagano il “pizzo”.

I quattro stilano bilanci e si confrontano sul come gestire quell’enorme capitale. Mentre discutono sugli investimenti più redditizi, il “consiglio di amministrazione” viene interrotto dal blizt della polizia. Dopo ventiquattro anni si conclude la latitanza di Salvatore Lo Piccolo, boss del quartiere di San Lorenzo. Con lui vengono arrestati anche il figlio Sandro, già condannato all’ergastolo per omicidio, Andrea Adamo, genero del capo mandamento di Brancaccio Savoca Giuseppe, e Gaspare Pulizzi, della cosca di Carini.

Nella primavera del 2006, con le catture di Provenzano e di Rotolo, tutto lasciava intendere che spettasse a “Totuccio” Lo Piccolo l’eredità della potente organizzazione mafiosa. Quel risultato Lo Piccolo lo aveva costruito con una “carriera criminale” dai mille volti, toccando le diverse “sponde” di Cosa Nostra nelle sue stagioni più tempestose.

Aveva appreso i metodi mafiosi facendo il “braccio destro” di Saro Riccobono, indicato dai giudici palermitani del primo maxi processo come rappresentante della famiglia di Partanna Mondello, assai attivo nel circuito del narcotraffico internazionale. Ma quando, nel 1982, Salvatore Riina decide di eliminare anche Riccobono, Lo Piccolo intuisce dove “soffierà il vento” e passa con coloro che usciranno “vincenti” dalla guerra di mafia, i corleonesi.

Catturato Riina, coltiva i rapporti con Binnu. Con lui i contatti, negli anni novanta, sono sempre più frequenti.

Lo Piccolo è un “uomo d’onore” ambizioso e spregiudicato, accarezza sogni di dominio. Il suo trend è in continua ascesa. Scala molte posizioni nel gotha di Cosa Nostra. Diventa un punto di riferimento importante nella zona nord occidentale di Palermo, e intanto colleziona numerose condanne all’ergastolo per omicidi di mafia. Col tempo, assume il controllo di importanti aree palermitane. San Lorenzo e Brancaccio sono sue, ma conquista progressivamente terreno anche in provincia.

Arriva il tempo della lotta per la successione al vertice di Cosa Nostra.

Bernardo Provenzano è sul “viale del tramonto”. Se ne accorge Lo Piccolo, ma la successione interessa pure a Nino Rotolo. I due si contendono lo scettro. Il boss di San Lorenzo è una ossessione per il suo antagonista. Prima di essere tolto di mezzo dalla retata dell’operazione

“Gotha” (giugno del 2006), Rotolo manifesta ai suoi più stretti collaboratori tutta la sua ostilità verso Lo Piccolo e il suo progetto di ucciderlo. Gli investigatori lo intercettano. Il boss corleonese è

preoccupato dalla forza economico finanziaria del suo rivale. Il giro d’affari legali e illegali facente capo a Lo Piccolo frutta oltre tre milioni di euro di incasso al mese. Estorsioni, droga, appalti e sale “Bingo” sono tra le sue specialità. E l’ex autista di Saro Riccobono non intende farsi ingabbiare

nei metodi arcaici di Riina e Provenzano. E’ dinamico negli affari. Li gestisce con la violenza e l’astuzia dei predecessori, ma non rinuncia a progetti di lunga scadenza. Vuole riacquistare il potere economico di un tempo; riportare la mafia siciliana al “centro” della scena nazionale e internazionale. Una scena nella quale si muovono con rinnovato vigore i clan camorristici e della ‘ndrangheta calabrese capaci di trattare grandi partite di droga e di reinvestire i proventi in attività di ogni tipo, penetrando anche nei più importanti mercati legali: dall’abbigliamento alla alta finanza, dal controllo dei porti alla rete commerciale dei prodotti hi-tech.

Per trasformare in realtà un progetto così ambizioso, Lo Piccolo pensa che non si possa più perdere terreno nella rete mondiale del narcotraffico. In quel settore vuole espandersi ad ogni costo. Punta su una rinnovata alleanza con i “cugini americani”, quelli “scappati” oltreoceano, esponenti delle famiglie Inzerillo e Gambino, “graziati” da una Cupola addomesticata dalla strategia sanguinaria di Salvatore Riina. Nonostante le resistenze di Rotolo e l’ambiguità di Provenzano, Lo Piccolo si fa promotore del rientro in Italia di coloro che, per non essere sterminati, avevano accettato l’esilio in terra straniera sino alla estinzione della stirpe. Ha bisogno di loro. Possono essere un “ponte” tra l’Isola e gli Stati Uniti, dove gli esiliati sono cresciuti.

Ma le regole antiche dell’associazione sembrano impedirlo.

Le regole antiche vanno rispettate. Possono essere interpretate e rese duttili per garantire sopravvivenza e forza all’associazione, ma restano un punto fermo. Sono il fondamento di Cosa Nostra sul territorio siciliano, il suo “nocciolo duro” da cui tutto muove. Danno ordine al sistema della protezione e delle estorsioni nelle borgate della città; quindi alla raccolta violenta delle risorse destinate ai “picciotti”, alle loro famiglie, alle spese legali, al sostentamento delle famiglie degli arrestati.

Non deve, allora, sorprendere il contenuto di un foglio dattiloscritto trovato in possesso di Lo Piccolo al momento dell’arresto tra i block notes, le agende, i biglietti scritti a penna, 70.000 euro in contanti e cinque orologi tra Rolex e Frank Muller. Non è un reperto storico quel foglietto dattiloscritto. Si tratta di uno statuto ancora vigente.

Indica organigrammi, competenze, rituali di ingresso, diritti e doveri del socio, procedure elettive dei rappresentanti e procedure sanzionatorie per chi viola le regole. Quel foglio dattiloscritto è la carta costituzionale di Cosa Nostra. Poche decine di righe bastano per sancire un progetto di continuità con l’associazione degli anni settanta e ottanta descritta da Tommaso Buscetta, e cristallizzata nella sentenza che ha concluso il primo maxi processo alla mafia siciliana.

Quel foglio è una faccia del “doppio modello” organizzativo di Cosa Nostra nell’area nevralgica di Palermo. E’ solo una faccia, quella che si ripete nel tempo. L’altra cambia espressione a seconda del momento.

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