Ecco la miniera di zolfo. Si chiama Cozzo Disi ed è la più grande di tutta la Sicilia. Ci lavorano 418 minatori, dieci tecnici, più il direttore e trentuno impiegati. Dicono anche che sia la più moderna dell’isola...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Ecco la miniera di zolfo. Si chiama Cozzo Disi ed è la più grande di tutta la Sicilia. Ci lavorano 418 minatori, dieci tecnici, più il direttore e trentuno impiegati. Dicono anche che sia la più moderna dell’isola, con un ciclo di lavorazione completa del minerale già nelle viscere della montagna, macchine mostruose a settecento metri di profondità che spaccano, macinano e, via via, da un impianto all’altro, portano in cima alla montagna il prodotto finito, cioè la polvere di zolfo già pronta per l’uso industriale. Produce quasi 300 tonnellate di minerale al giorno.
Il direttore è un ingegnere, basso, tarchiato, con un centimetro di capelli grigi, sembra uno sceriffo del West, di quelli che facevano implacabilmente impiccare i poveri ladri di cavalli. Ordina che ci diano gli elmetti di protezione, non ci guarda nemmeno in faccia e ci dà subito la mano per congedarci: «Io non dico niente, non concedo interviste, io sono solo un tecnico, il mio compito è quello di cavare lo zolfo e io questo faccio. Arrivederci!».
Piove, tira un vento gelido per tutta l’immensa vallata, l’ingresso della miniera sorge sulla cima di una montagna strana e cupa, senza un albero. Si intravedono caverne e fenditure. Molti anni fa il peso della montagna divenne insopportabile e alcune gallerie in fondo si schiacciarono, sulla cima si aprirono invece queste spelonche. Laggiù rimasero molti esseri umani. Forse agonizzarono per giorni, forse morirono di colpo; l’urlo della montagna che sprofondava di dieci metri, forse anche un grande lampo di grisou, il gas che si annida nelle viscere della terra fra uno strato di roccia e l’altro.
L’anno dopo otto tecnici e sorveglianti, in un giorno di sciopero, scesero a perlustrare la miniera di Trabia, qualcuno provocò una scintilla, subito un fuoco, una specie di folgore percorse la galleria in meno di un secondo. Morirono tutti così.
Ad oriente della montagna di Cozzo Disi si apre una grande valle, al centro della quale c’è un laghetto artificiale e dalla parte opposta una catena di altre piccole montagne, dai cui crinali sbucano teleferiche sottili. Sulla cima più alta, arroccato su un’altura di pietra, il paese di Casteltermini, triste e solo.
Per accedere alla miniera bisogna prima percorrere una galleria lunga un chilometro, stretta e buia, per la quale si arriva al pozzo, cioè alla voragine che sprofonda per settecento metri sottoterra fino alla miniera. Per chi percorre per la prima volta questa galleria la sensazione d’angoscia è insopportabile. Bisogna camminare adagio sul fango, nell’oscurità totale, sempre un po’ curvi perché il tetto della galleria diventa sempre più basso.
Io avevo sempre pensato che gli elmetti dei minatori fossero ridicoli, con quei colori, giallo o bianco, quelle fogge strane, di cose messe in testa per scherzo. Se non avessi avuto quell’elmetto mi sarei spaccato dieci volte la testa contro gli spuntoni di roccia o i tubi metallici.
In quell’interminabile buco che s’infilava nella montagna c’era un vento impetuoso e gelido. Fango, vento, buio, le torce di quella fila umana che avanzava adagio verso una grande luce bianca del fondo. Chissà perché io speravo che fosse una luce di giorno: pensavo una lama di sole che arrivasse da una fenditura della montagna.
Invece era solo una luce abbagliante di neon: in quel punto si apriva una voragine larga sette, otto metri che sprofondava fino alla miniera e qui si scendeva su una specie di piattaforma metallica tenuta da due lunghissimi fili di acciaio. La piattaforma scese oscillando, in un rumore di catene, ogni tanto si sentiva un suono di campana che annunciava l’arrivo ad uno dei dodici livelli. e per qualche secondo si intravvedevano al di là di alcune grate d’acciaio, volti umani che attendevano per risalire. Il viaggio sembrava interminabile.
Un minatore disse: «Scendiamo ad una velocità di tre metri al secondo. Questo ascensore può arrivare anche a dieci metri al secondo, ma quando supera i sei metri tutto comincia a tremare e sbandare. Si potrebbe spezzare una fune!» Arrivammo in fondo alla miniera e imboccammo un’altra galleria buia, armata con travi di legno, anche questa con la volta sempre più bassa sì da dover camminare curvi. Avanti a tutti l’ingegnere che faceva da guida, un uomo piccolo e rotondo, estremamente gentile. Con quell’elmetto e la lampadina accesa, in testa, emergeva ogni tanto dal buio come un marziano. «Scusi ingegnere, ma non si sarebbe potuto scavare una galleria un tantino più alta, questa sembra fatta proprio per nani, pardon, volevo dire…».
L’ingegnere fece un sorriso soave: «Sembra fatta su mia misura, vuole dire… La verità è che si scavano gallerie per un’altezza di due metri, poi c’è la pressione della montagna che comincia a schiacciarle, e allora bisogna rivestirle di cemento, di armature, e via via la volta diventa sempre più bassa. Ecco, per esempio il suo fotografo che è piccolino…».
Si sentì un tonfo ed una piccola ma laida bestemmia. Anche il fotografo nel buio aveva dato di testa contro la roccia e l’ingegnere fece un altro sorriso mite: «Questa galleria comincia a stare stretta anche per noi!» Aveva questo straordinario sorriso dell’uomo che vive da trent’anni dentro una miniera di zolfo e oramai è rassegnato alla sua scelta, come può esserlo l’astronauta che sa di dover essere sparato sulla luna, oppure l’ergastolano che misura la sua libertà sulle dimensioni di una cella.
Un sorriso dolce, ma appassito, senza più passione. Mi aveva perfettamente spiegato la miniera tracciando una specie di grafico contro una parete di salgemma. «Ecco, questa è la montagna di Cozzo Disi, questa la galleria che abbiamo percorso per un chilometro, questo il pozzo che ci ha portato sul fondo e questi i dodici livelli della miniera. Noi siamo all’ultimo. Già si sta lavorando per scavare una galleria al tredicesimo livello, cinquanta metri più in basso!».
A mano a mano che la miniera è costretta a scendere per seguire il percorso dello zolfo, si comincia a scavare una prima galleria centrale per una lunghezza di circa cinquanta metri, e contemporaneamente, a distanza di una cinquantina di metri, si scavano due gallerie laterali, quasi parallele, unendole a quella centrale con una serie di traverse che consentano il circuito di ventilazione.
A quel punto le tre gallerie convergono riunendosi, e solo allora si continua a scavare per altri cinquanta metri, sempre con tre gallerie convergenti, che si uniscono in fondo, laddove ricomincia daccapo l’avanzata dei lavori.
Questo sviluppo di gallerie sotterranee forma una specie di reticolo dentro il quale resta isolato il minerale in enormi blocchi quasi quadrati, cioè cinquanta metri di altezza fra un livello di miniera e l’altro, cinquanta metri in larghezza e altrettanti in lunghezza.
I minatori debbono lentamente divorare questi enormi blocchi di minerale aggredendolo proprio nel suo cuore, cioè nel centro di questo gigantesco quadrato, in modo da non intaccare le pareti esterne per evitare che il complesso sistema di equilibri portanti possa d’un tratto spezzarsi facendo crollare l’intera ragnatela sotterranea.
Comincia la fase più allucinante: lungo una parete comincia a scavarsi lentamente un cunicolo in salita, non più largo di un metro che, scalino dopo scalino, arrivi proprio al centro di quell’immane blocco di minerale e qui lentamente si comincia a estrarre il minerale, dapprima adagio con i picconi, in modo da controllare la compattezza delle rocce, eventuali fughe di gas grisou, la presenza di fenditure sotterranee.
Un lavoro cupo di talpe in cui la forza essenziale è sempre quella fisica dell’uomo, la sua pazienza oscura, il suo coraggio, la capacità di stare per otto ore sottoterra, infilato in un cunicolo che avanza nelle viscere della montagna, e staccarne adagio le pietre, riportarle lentamente verso il basso della galleria, e scavare così un budello sempre più profondo.
A volte bisogna lavorare in ginocchio, a volte bisogna scalare questo buco quasi carponi, con una temperatura soffocante, senza un filo d’aria, l’odore fetido dello zolfo, il gocciolio della pece dalle fenditure, l’odore sempre più profondo e triste del corpo umano, il suo sudore, i suoi rifiuti, alla sola luce di quella lampada piantata in cima all’elmo. E così, via via quel cunicolo, proprio nel cuore della massa di zolfo comincia ad allargarsi, diventa una caverna sempre più vasta e più alta, divorata dalla forza e dal sacrificio dell’uomo.
Percorremmo una galleria dell’ultimo livello per non so quanti metri, io mi accorsi che avevo smarrito il senso del tempo, sapevo soltanto che ogni passo mi portava sempre più lontano, più profondamente lontano da tutte le cose del mondo, e sapevo anche che quegli uomini che mi seguivano, quel piccolo ingegnere dal sorriso triste, quei minatori a torso nudo, ogni giorno compivano quel percorso, per anni, per decine d’anni.
Cercavo di disprezzare la mia paura, ma non era paura, era angoscia, cioè qualcosa di più animalesco e irrazionale. Il caldo era diventato insopportabile, il silenzio totale, gli uomini camminavano in fila senza una parola, ogni tanto volgendomi vedevo il volto del fotografo Torrisi con le gocce del sudore che gli correvano da sotto l’elmo per tutto il volto.
E ogni volta che io lo guardavo, per un attimo, al bagliore della lampada, egli mi volgeva uno sguardo interrogativo come per chiedermi: «Io che c’entro?» Improvvisamente il piccolo ingegnere fece un gesto. Sulla parete della galleria si apriva una specie di buco che si perdeva in alto. Mi fece l’onore di farmi salire per primo: era un buco così stretto e basso, con dei gradoni di mezzo metro, che bisognava arrampicarsi in ginocchio.
Io volgevo in alto la luce dalla lampada ma non scorgevo mai la fine di quella tana, sentivo le pietre che mi rotolavano sotto i piedi e i ginocchi, tutto il corpo fradicio di sudore, per un attimo pensai al mio tavolo di redazione, le foto delle donne alle pareti, il buon odore del caffè, il pacchetto delle sigarette ed ebbi un pensiero molto semplice: «Ma chi cavolo me lo ha fatto fare?».
Improvvisamente si udì un urlo agghiacciante, una cosa che non avevo mai udito prima, fate conto del barrito di un elefante inferocito. Ecco, come un barrito di dieci elefanti insieme, a pochi metri nel buio, un urlo lacerante che non si capiva dal quale parte venisse, così improvviso e terribile. Mi sentii paralizzare, rimasi immobile nel cunicolo con un ginocchio a terra e istintivamente volsi la lampada sul volto dell’ingegnere nel terrore di scorgere la mia stessa paura. Invece sorrideva.
Continuò a inerpicarsi con quel suo sorriso gentile. Disse: «E la macchina che scava e carica lo zolfo. Funziona ad aria compressa perché qui sotto non si possono utilizzare motori a scoppio o elettrici per pericolo di esplosione o incendi. Allora in cima alla montagna c’è un gigantesco motore che produce aria compressa e quest’aria per tubi lunghi chilometri arriva quaggiù a far funzionare la macchina. Hanno una forza terribile! Senta che grido, scagliano tanta aria quanto l’urlo di centomila persone insieme!».
Sbucammo nella caverna, alta, immensa, buia, un antro con le pareti bianche di salgemma, nere di pece, gialle di zolfo, e la macchina era là che stava divorando una parete: una specie di enorme scarafaggio di ferro, con quattro ruote, che affondava urlando la sua zanna in mezzo ai macigni, ed alzandoli se li lasciava cadere nel cassone metallico alle sue spalle.
Era pilotata da un uomo soltanto, un gigante a torso nudo, il quale impugnava due semplici leve. Tutta la macchina ondeggiava, affondava pesantemente le sue zanne in mezzo alle pietre, caricava, tremava, urlava, e anche l’uomo issato in cima tremava insieme alla macchina, tutto il suo corpo, i suoi muscoli si contraevano e scattavano sulle leve per dominare la potenza dell’ordigno.
Poi d’un tratto la macchina fece una specie di gemito pesante, e cominciò a indietreggiare lentamente, fino al margine di un’altra voragine che si apriva dalla parte opposta della caverna e d’un colpo rovesciò laggiù tutti i macigni che precipitarono, in un rimbombo nel buio.
Da ogni parte della miniera, a tutti i livelli, da tutte le caverne c’erano voragini così che conducevano tutte verso lo stesso punto, il più profondo, dov’era installato un colossale frantoio. E quei milioni di pietre e macigni che precipitavano da ogni anfratto della montagna qui venivano stritolati, schiacciati, sgretolati, riversati su nastri trasportatori verso i contenitori del pozzo di risalita.
Ogni contenitore può reggere ventisette quintali di minerale, allorché il peso è raggiunto, viene spinto sull’ascensore che lentamente lo trasporta in cima alla montagna dov’è installato un secondo frantoio ancora più grande, formato da una serie di enormi tamburi di acciaio contenenti centinaia di palle di ferro di dieci chili ciascuna. I tamburi girano vorticosamente e quelle sfere di ferro impazzite picchiano, schiacciano, sbriciolano finché lo zolfo diventa una sorta di pietrisco polveroso che una serie di nastri trasportatori avvia agli impianti di flottazione, cioè centinaia di vasche dove la polvere di zolfo viene immessa in una soluzione liquida di petrolio, olio di pino e reagenti che separano definitivamente lo zolfo dal materiale inerte.
Capannoni sterminati, centinaia di vasche colme di fango liquido continuamente rimestato da palette elettriche, un fruscio, un ansimare, un gorgoglio che confluisce verso una immensa vasca dove lo zolfo liquido si riversa con un getto imponente.
Dal fondo di questa vasca una pompa avvia il minerale ad altri immensi tamburi che, girando ad altissima velocità lo separano dall’acqua, lo purificano, lo trasformano in pasta giallastra che cola sul fianco della montagna. Immaginatevi una gigantesca piscina profonda venti metri, larga cinquanta, lunga cento metri.
Prima di iniziare la discesa nella miniera, avevo visto questo gigantesco parallelepipedo giallo, più grande di un palazzo, più vasto di una piazza. Copriva un fianco della montagna accanto agli impianti terminali della cima. Centinaia di migliaia di tonnellate di zolfo allo stato puro.
Avevo chiesto quale fosse il prezzo e l’ingegnere con un inchino mi aveva informato: «Tredicimila lire al quintale!» «E chi sono gli acquirenti?» «Nessuno!» «Nessuno, come?» «Questo è lo zolfo prodotto da questa miniera negli ultimi due anni. Nessuno lo ha comperato, nessuno lo vuole!».
Ora io entro dentro una caverna, nel fondo di una montagna, per arrivare alla quale bisogna prima percorrere nel fango una galleria piena di freddo e di vento, e poi scendere per settecento metri dentro una voragine, e poi camminare per altre centinaia di metri nel fango, nel buio, in mezzo alla pece, e poi risalire un cunicolo come rettili fino ad una caverna.
Dentro questa caverna, così lontana da tutte le cose del mondo, così remota da essere quasi irreale, c’era una macchina di acciaio che avventandosi e urlando come una belva, scavava, caricava, tremava, ondeggiava, indietreggiava, scaricava dentro una voragine ancora più profonda, e poi tornava a riavventarsi, e su quella macchina c’era un uomo che la governava tremando e urlando con essa.
Così per otto ore divoravano le viscere della terra. E negli infiniti cunicoli, e caverne e gallerie di quella montagna di Cozzo Disi, c’erano altre centinaia di uomini che scavavano con i picconi e l’esplosivo, per otto ore, e altre macchine che azzannavano e urlavano, e così senza posa, otto ore, dopo otto ore, senza fermarsi mai. Per cavare lo zolfo, che nessuno vende e nessuno compera. Cioè per niente!
Dentro quella galleria, per un attimo cercai di fare un calcolo dello spreco spaventoso di denaro e di umanità che si stava consumando, ma non riuscii a connettere il senso delle cose e pensai di essere diventato pazzo. Subito ebbi un pensiero ancora più terribile: che stia impazzendo la società politica dentro la quale viviamo. E non ce ne rendiamo nemmeno conto!Nelle
© Riproduzione riservata