Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana


Oltre alla segretezza degli elenchi, che riguarda, come visto, la non conoscibilità di un’alta percentuale di nominativi di massoni, in talune obbedienze, se ne è riscontrata un’altra forma più ampia che coinvolge, cioè, gli iscritti tout court sebbene annotati nelle liste in modo palese.

Si è già detto, infatti, di quelle regole ordinamentali che vietano la rivelazione a terzi dell’identità dei fratelli. Tale divieto, tuttavia, come si è potuto accertare, riguarda anche la pubblica autorità.

Ci si riferisce, in particolare, alla questione del dovere dei dipendenti pubblici di dichiarare, all’amministrazione di appartenenza, l’eventuale affiliazione “ad associazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento dell'attività dell'ufficio”.

Orbene, quando, nel corso della sua prima audizione, è stato domandato al gran maestro Bisi se gli affiliati alla sua obbedienza assolvessero al dovere e se il GOI ne verificasse o ne sollecitasse l’adempimento, egli lasciava intendere che, nella sua obbedienza, non era ancora chiaro come procedere tant’è che “i nostri fratelli hanno chiesto ai loro superiori che cosa debbano fare”. La risposta era, dunque, sorprendente: i pubblici dipendenti anziché informarsi presso le proprie amministrazioni, attendevano le disposizioni dei superiori massoni prima di uniformarsi al dettato normativo.

Nella successiva audizione a testimonianza si ritornava sull’argomento e, stavolta, Bisi, dopo essersi maggiormente documentato, sosteneva che, siccome il dovere del pubblico impiegato è quello di riferire se appartenga a una associazione che interferisca con l’attività professionale, non vi è alcun obbligo di dichiarare l’adesione alla massoneria.

In sostanza, in ambito massonico, era stata recepita questa interpretazione attraverso cui, con un preventivo giudizio di non interferenza, sostitutivo di quello dell’ente pubblico, si consente ai fratelli-pubblici impiegati di mantenere la segretezza sulla propria affiliazione massonica. Viene anche da pensare che le esigenze del segreto, evidentemente ritenute prevalenti rispetto a quelle dell’ordinamento dello Stato, hanno portato una certa massoneria, che pur pretende dagli affiliati l’impegno ad “adempiere fedelmente i doveri ed i compiti relativi alla mia posizione e qualifica nella vita civile”, a confinare quell’obbligo tra il novero delle disposizioni che “non si conformino alla Costituzione”.

Un altro caso emblematico, che dimostra l’esattezza della suddetta chiave di lettura è quello della loggia “Araba fenice” della GLRI.

Accadeva, infatti, che essendovi in corso verifiche da parte della Digos, uno dei fratelli aveva consegnato a tale organo di polizia, previa richiesta scritta, gli elenchi della loggia “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria e, previa richiesta orale, quelli della loggia “Araba Fenice”.

L’ottemperanza del fratello all’ordine dell’Autorità, almeno per quanto riguarda la richiesta orale, venne considerata colpa massonica che determinò la sua sospensione in attesa della espulsione. Tale decisione venne stigmatizzata dagli iscritti alla “Araba fenice”, rimasti increduli per la circostanza che il rispetto delle autorità avesse potuto comportare l’emissione di un sì grave provvedimento e, dunque, in massa, rassegnarono le proprie dimissioni, così determinando il naturale scioglimento della loggia.

Particolarmente significativi sono gli atti inerenti a tali vicende.

Risulta infatti che, la dirigenza della Gran Loggia regolare di Italia comunicava al suddetto fratello di avere “manifestato una scorretta gestione dei dati sensibili dei membri di Loggia” e che, pertanto, veniva sospeso “con richiesta di espulsione”.

L’incolpato, a sua volta, ribatteva, “vista la gravità e contrarietà alle norme di legge che la S.V. avrebbe voluto che ponessi in atto, non esibendo un documento legittimamente richiesto dall’autorità di polizia” rassegnando le proprie dimissioni.

Dal loro canto, gli altri componenti della loggia, dimettendosi, rimarcavano “che l'aver consegnato ad un ispettore di polizia, delegato dall'autorità giudiziaria, un semplice elenco dei dati anagrafici degli aderenti alla Loggia Araba Fenice, non possa considerarsi una incauta divulgazione di dati sensibili ed anzi si configura quale condotta lecita ed ottemperante dei doveri che ciascun aderente ad ogni Organizzazione Massonica deve osservare ai sensi della legislazione vigente”.

Se non si hanno elementi di sorta per affermare che la reazione dell’obbedienza tendesse a ostacolare le indagini e a salvaguardare gli iscritti in rapporto con la mafia (che, come si è visto, appartenevano alla loggia), quantomeno un tale atteggiamento non può che leggersi nella ricorrente ottica della tutela della segretezza, anche verso le istituzioni, del nominativo degli appartenenti alla massoneria.

Il segreto dei fatti

Una serie di accertamenti evidenzia, altresì, un generalizzato dovere di segretezza che riguarda, parallelamente, anche gli accadimenti interni alla massoneria e ciò anche quando essi assumano pubblico interesse.

Una prima vicenda in tal senso, è quella relativa all’Avv. Amerigo Minnicelli, massone di lungo corso e per discendenza, maestro venerabile della Loggia Luigi Minnicelli di Rossano.

Attraverso la sua audizione a testimonianza del 31 gennaio 2017 e le missive dallo stesso inviate o prodotte alla Commissione, è stato possibile verificare che egli, insieme ad altri otto maestri venerabili calabresi, con una lettera del 10 ottobre 2011, sollecitava i vertici del GOI a prestare maggiore attenzione nella scelta dei profani stante il concreto pericolo di infiltrazioni ‘ndranghetiste. Inoltre, quale direttore del sito web www.goiseven.it, prendendo spunto dall’arresto, avvenuto il 29 luglio 2011, di un fratello accusato di avere intrattenuto rapporti con la mafia, aveva pubblicato un articolo, in cui si sosteneva che si stava “seduti su un braciere ardente” posto che “nei piè di lista delle logge vicine ai territori 'ndranghetisti sarebbe entrato di tutto e di più».

L’unico risultato prodotto da queste segnalazioni fu che, nell’ottobre 2012, il Minnicelli veniva espulso dal Grande Oriente d'Italia e, per di più, a suo dire, a differenza di altri iscritti che, sebbene colpiti da misure cautelari o coinvolti in reati gravissimi, non avevano subito alcun procedimento disciplinare massonico.

Orbene, ciò che rileva in questa vicenda, certamente caratterizzata da un clima conflittuale tra le parti, sono le ragioni sottese al provvedimento di espulsione.

Poiché non risulta che gli altri otto firmatari dell’esposto abbiano subito eguale trattamento, è allora nella denuncia pubblica, tramite il web, che va individuata la colpa del massone il quale, appunto, aveva divulgato, nonostante il dovere di segretezza, i fatti interni all’obbedienza.

Ciò emerge, per altri versi, anche dalla pretestuosità della motivazione formale del decreto Minnicelli, in sostanza, non veniva accusato della rivelazione di vicende compromettenti, bensì, attraverso un contorto ragionamento, di avere, con la pubblicazione dell’articolo su internet, accessibile ai profani, leso l’onore e la reputazione dei maestri venerabili così accusati, implicitamente, di omessa vigilanza sulle logge calabresi.

Divieto di parlare in pubblico, dunque, specie se si tratti di mafia.

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