Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


C’è il boss bagherese Gino Mineo, che è negli Usa il giorno in cui la tecnica libanese dispiega per la prima volta i suoi effetti a Palermo per uccidere il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il 29 luglio dell’83. Dagli Stati Uniti Mineo riceve i dettagli – «Hanno messo Tnt nella macchina, lui è morto, con la scorta e il portiere, e altre quindici persone sono rimaste ferite» – ma non il nome della vittima. Che, evidentemente, deve essergli noto. Una strage annunciata, quella di Chinnici, come poi sarebbe accaduto anche per quelle di Capaci e via D’Amelio. Il libanese Bou Chebel Ghassan, trafficante di droga in contatto con i Servizi e informatore della polizia, dice che a Palermo si prepara un gran botto nell’estate dell’83.

Lo ha appreso agli inizi di luglio in un hotel di Taormina. Il 26 riceve ulteriori dettagli e parla di autobomba. Nomi non ne fa o non è in grado di farne. Informa però i suoi referenti che fanno regolare rapporto, ma non viene creduto. E tre giorni dopo Chinnici muore quando esplode una 126, proprio come in via D’Amelio nove anni dopo, imbottita di esplosivo. Uccide anche il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui abitava il giudice. Chinnici voleva arrestare i cugini Nino e Ignazio Salvo,

Falcone era di diverso avviso e nei diari di Chinnici diffusi ad arte dopo la sua morte c’era traccia di quel dissenso. Un anno dopo è proprio Falcone ad arrestare i Salvo. A Caltanissetta, durante il processo per la morte di Chinnici, l’allora capitano Angiolo Pellegrini conferma quel che aveva raccontato anche il vicedirigente della squadra mobile, Ninni Cassarà: sì, Chinnici aveva intenzione di arrestare i potenti esattori siciliani trait d’union tra mafia e politica. Dei padreterni dal colletto più che bianco.

Da una intercettazione salta fuori che durante una telefonata il potente avvocato Vito Guarrasi, Pippo Cambria, parente e uomo di fiducia di Nino Salvo, e quest’ultimo così si erano espressi su Chinnici: «Continua a dare tumpulate [schiaffi] e noi altri che gliel’abbiamo date prima di lui».

Furono i Salvo a perorare l’omicidio Chinnici? I collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Franco Di Carlo, a distanza di parecchio tempo, hanno confermato che le loro lamentele presso la commissione mafiosa non rimasero inascoltate. Ma di quella intercettazione non esiste più traccia, sparito il nastro, sopravvive solo in una trascrizione della polizia.

C’è chi avvisa i cecchini di Cosa Nostra che Ninni Cassarà, il 6 agosto dell’85, tornerà a casa dopo tre giorni trascorsi in Questura e quelli che lo aspettano – tra loro, forse, anche uno sbirro amico degli amici – aprono le bocche di fuoco e gli scaricano addosso decine di colpi di kalashnikov. Con lui uccidono Roberto Antiochia, il poliziotto che ha rinunciato a trasferirsi a Roma per stare al fianco del suo funzionario,

Un altro agnello della squadra mobile di Palermo, da dare in pasto ai leoni. Proprio come, prima di lui, Lillo Zucchetto e Beppe Montana. Non sarà l’ultimo.

C’è chi mette in giro la voce che Natale Mondo, l’uomo più fidato, l’autista di Ninni Cassarà, che porta a pesca in segreto il vicequestore e Giovanni Falcone, si è salvato non perché si è gettato sotto la macchina mentre piovono raffiche di AK-47 ma perché è un colluso. Per tirarlo fuori dal carcere è necessario svelare che nella sua borgata, l’Arenella, sotto il controllo del boss Gaetano Fidanzati, il poliziotto ha lavorato da infiltrato. Ha utilizzato una vecchia conoscenza, Tony Duca, per ricostruire la mappa del traffico di droga tra la Sicilia e la Lombardia dove “Tanino” Fidanzati ha piazzato le sue basi al Corvetto: smista eroina e riceve coca dai narcos sudamericani.

Natale Mondo lascia la cella, ma diventa un morto che cammina. Non lo salva la pistola che porta alla cintola. Il 14 gennaio del 1988, quando il primo maxiprocesso è finito da meno di un mese e gli squadroni della morte dei Corleonesi passano a regolare tutti i conti lasciati in sospeso, lo uccidono davanti al negozio della moglie nella borgata dell’Arenella. E solo allora il cadavere dell’agente Natale Mondo avrà i gradi da assistente capo.

C’è il pentito Totuccio Contorno che a ogni raid tra Bagheria, Altavilla e Casteldaccia, tra marzo e maggio dell’89, chiama un telefono di Roma e racconta che i nemici «escono come i crastuna», vengono fuori come le lumache dopo la pioggia.

C’è il “Corvo Uno”, l’anonimo, che poco dopo racconta la sua verità sul ritorno armato del pentito Contorno in Sicilia.

C’è chi il 21 giugno dell’89 piazza l’esplosivo sulla scogliera dell’Addaura e chi distrugge i reperti che avrebbero potuto dire con certezza se poteva uccidere o fosse lì solo per intimidire Giovanni Falcone. Anche qui una “voce di dentro” spifferò ai sicari che il giudice sarebbe andato in spiaggia con i colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, ospiti nella sua villa dell’Addaura.

L’appuntamento per quel diversivo in mezzo a un’agenda fitta di impegni giudiziari sulle tracce del denaro dei mafiosi era stato preso la mattina del 19 giugno nell’ufficio di Falcone, a Palazzo di Giustizia: bagno a mare e pranzo per l’indomani, si era deciso. Ad ascoltare, oltre agli interessati, c’erano anche alcuni ufficiali di polizia giudiziaria. La sera del 19, l’appuntamento per l’indomani fu confermato a conclusione di una cena di rappresentanza.

Altre orecchie avrebbero potuto ascoltare. Il 20, il giorno convenuto per il pranzo, l’esplosivo era sulla scogliera. Un interrogatorio protrattosi oltre il previsto fece saltare l’appuntamento tra il giudice e i suoi ospiti. La bomba rimase sulla scogliera, alla villa non si vide nessuno e il 21 il pacco con l’ordigno fu scoperto.

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