Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Un processo come quello istruito con le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino per la strage di via D’Amelio del 1992, quella in cui morì Paolo Borsellino con i cinque ragazzi che lo scortavano, è viziato all’origine da quel che è accaduto fuori dal controllo di chi quelle dichiarazioni doveva vagliare. Che le ha prese per buone ostinandosi ad accordarle col contesto, quando erano corrotte all’origine. Inficiate da ciò che è accaduto in carcere, quando i colloqui investigativi diventavano minacce, intimidazioni, violenze fisiche e psicologiche e poi sottili opere di persuasione e di ammaestramento.

Così, anche quando c’erano gli elementi per innescare il dubbio che il marcio iniziale avesse contaminato tutto, si è preferito lasciar correre. Con i colpevoli fuori a ridersela e gli innocenti in galera.

In carcere e dal carcere è partita l’offensiva a suon di bombe contro il 41 bis, che nel 1993 ha costretto lo Stato ad arretrare – questo è indubbio – sull’efficacia reale di quello strumento.

Perché i fatti, argomenti testardi, raccontano che a ogni azione, a ogni esplosione, è corrisposta una reazione di segno uguale e non sempre contrario, talvolta anzi, e vedremo quante volte, di segno concomitante. I mafiosi piazzavano bombe per allentare la pressione, e la pressione in almeno due occasioni si è allentata. La successione degli eventi, la loro intima logica, dimostra che lo Stato ha mostrato la sua debolezza proprio quando vestiva la maschera feroce. Ha ceduto quando dava l’impressione di reprimere.

I processi, forse non basteranno neppure quelli, diranno chi sono i responsabili. Proveranno a stabilire se esiste una responsabilità penale per chi subisce un ricatto e se il cedere all’intimidazione sia stato l’atto passivo della sottomissione, condannabile ma non sanzionabile, oppure configuri una partecipazione attiva e consapevole fino alla spartizione dei ricavi di quella iniziativa. Ancora una volta, per un giudizio politico su quanto è accaduto, ci si dovrà rimettere a un verdetto.

Il carcere, con i suoi patimenti e le sue astuzie, le sue morti sospette e i suoi obliqui ravvedimenti, è perfino capace di coniare nonsense come “è stato suicidato”, a raccontare di chi, con i lacci delle scarpe o con un sacchetto in testa, con lenzuola ridotte a strisce o bombolette da campeggio ad alimentare camere a gas, è stato ucciso e poi ridotto a recitare suo malgrado la parte del suicida.

E a rimanere zitto per sempre, come è accaduto nell’estate del 1993 a Nino Gioè, lo stragista di Capaci, al centro del mistero che l’ignaro Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, considerava centrale per fugare il dubbio di essere stato lui stesso, al tempo in cui era al ministero della Giustizia, «utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi».

Il carcere, con i suoi mille protagonisti in divisa e in tuta, perfino con le sue tante pagine a lieto fine che raccontano di rieducazione e di pene utili a chi le sconta e alla società, è comunque il luogo della compressione. Dei corpi e delle verità. Pretende l’espiazione prima della pena, e a sentenza pronunciata impone il prezzo a uomini che si vorrebbe diversi in un posto che è sempre uguale.

Queste storie che andiamo a raccontare sono storie di morti e fantasmi, di patti e ricatti, di trame e misteri, un altro tassello di quella storia, grande e indicibile come mai ne ha avuta un altro Paese moderno dell’Occidente.

Sono le storie di un’alleanza stabile, di un’intesa duratura tra lo Stato e Cosa Nostra, tra la legge e il crimine, tra le regole e l’arbitrio.

Sono scritte col sangue di chi definiamo eroi, ignorando, o fingendo di farlo, che l’altare sul quale li abbiamo sacrificati, attribuendo loro un ruolo che non sarà mai il nostro, è l’altare di quella che chiamiamo democrazia.

Minata alle fondamenta dall’eterna tentazione dell’accordo, edificata su un assioma che fa coincidere l’ordine pubblico con la calma apparente. Come se l’assenza di delitti e stragi fosse l’unico risultato al quale tendere e non importa con quale mezzo.

Come se l’incidenza mafiosa fosse misurabile con gli indici del Viminale sull’insorgenza di reati e crimini. Un approccio spesso ragionieristicamente inconcludente negli effetti di contrasto, quando non addirittura catastrofico.

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