Mia nonna ha impiegato circa 4 anni per imparare a mandare un sms, ma non ha mai imparato a farlo davvero. O, meglio, non ha mai imparato a farlo senza grandi difficoltà e inconvenienti maldestri. All’epoca in cui ha acquistato il suo primo cellulare studiavo in un’altra città e, ogni volta che tornavo a casa, sapevo che mi avrebbe chiesto di mostrarle come funzionava il processo. Poteva accadere anche quattro o cinque volte in un anno. Per quanto mi sforzassi di essere il più chiaro e paziente possibile, per una persona anziana inviare un messaggino era un’operazione tutt’altro che banale. D’altra parte, c’era qualcosa di intimo e rituale in quelle mie dimostrazioni. Quelle richieste erano, per mia nonna, il modo di mantenere tra noi un legame d’affetto. Un legame che si è interrotto quando mia nonna ha acquistato uno smartphone e, qualche giorno dopo, voleva diventare mia amica su Facebook.

Senza attrito

Aveva fatto tutto senza coinvolgermi. Mia nonna, la stessa che attivava ignara servizi sms a pagamento, non solo era riuscita a iscriversi a Facebook da sola, ma mi aveva anche trovato e inviato una richiesta di amicizia. Interrogata in proposito, non aveva saputo spiegarmi come avesse fatto. Ciononostante ci era riuscita e lo aveva fatto grazie a una qualità che è propria di tutte le interfacce digitali moderne: la cosiddetta frictionless.

Potremmo tradurre questa parola inglese con l’espressione “assenza d’attrito”. Indica la capacità che un’interfaccia ha di guidare il suo utente a compiere un’azione o vivere un’esperienza senza che esso incontri ostacoli sulla sua strada. La frictionless è quella qualità che ha permesso a un’anziana signora tecnologicamente analfabeta di registrarsi a una piattaforma social, attivare il suo profilo, cercare quello del nipote, trovarlo e aggiungerlo alla sua rete di contatti. Il tutto in modo naturale e senza incontrare alcuna ambiguità in grado di ostacolare o interrompere il procedimento.

Tutte queste azioni sono rese possibili da immagini al cui interno sono codificate e inscritte delle possibilità di azione, dette call to action (inviti all’azione). Sono call to action il pulsante “aggiungi al carrello” di un sito di e-commerce; il pulsante “pubblica” su Facebook e qualsiasi altro elemento di un’interfaccia che può essere cliccato. Una volta attivate, queste azioni devono avvenire senza che tra esse si produca attrito, in modo frictionless insomma. Distillare questa qualità è l’obiettivo del design delle interfacce, la disciplina praticata da chi si occupa di progettare i modi con cui interagiamo all’interno spazi digitali che abitiamo ogni giorno.

Genealogia di un concetto

Se volessimo provare a tracciare una genealogia di questo concetto dovremmo tornare agli albori del web design, quando le connessioni erano lente, farraginose e snervanti. In condizioni come quelle, la pulizia e la chiarezza del flusso di navigazione dell’utente facevano la differenza tra il successo e l’insuccesso di un prodotto digitale. Progettare l’esperienza dell’utente nel modo più intuitivo, accessibile e chiaro possibile era (ed è ancora) l’obiettivo primario dei designer. Gli ambienti così progettati, che beneficiano della capacità di convertire in dati i comportamenti offerti dalle tecnologie digitali, sono oggetto di un’ottimizzazione costante che ha come conseguenza la massima trasparenza dell’interfaccia. Di fronte al suo utente, la natura progettata e costruita dell’interfaccia svanisce e tutto avviene senza che essa si faccia sentire come se fosse, appunto, invisibile e, dunque, scontata.

Se volessimo fare un paragone cinematografico, l’attuale design delle interfacce assomiglia molto alla grammatica del cinema hollywoodiano classico. Cioè una serie di convenzioni che mirano all’immersività dello spettatore facendo sparire ogni traccia dell’apparato tecnico necessario per produrre il flusso d’immagini. L’immersività è infatti uno degli obiettivi principali di chi progetta interfacce e non è un caso che gli studi di psicologia cognitiva giochino un ruolo chiave in questa disciplina. Massimizzare il coinvolgimento dell’utente, immergerlo nell’esperienza e collegarlo per il maggior tempo possibile alla piattaforma sono tutti obiettivi perseguiti con precisione scientifica. Tutto ciò costituisce oggi un nodo di problemi di enorme portata.

L’ossessiva ricerca di esperienze prive di attrito risponde infatti a una visione comportamentista che guarda a chi utilizza le piattaforme come a un androide da programmare tramite interfacce che ne mediano le azioni e le esperienze. Come nota Shoshanna Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza, c’è, dietro a questa ricerca, l’esigenza di estrarre valore dall’utente sotto forma di surplus comportamentale. Ovvero la conversione delle nostre azioni in dati che vengono poi aggregati, computati, utilizzati da chi li ha raccolti e venduti a terzi per altri scopi (di solito a fini pubblicitari). Per quanto quella espressa da Zuboff sia una visione prona fin troppo spesso ad arrendersi alle dichiarazioni trionfalistiche delle piattaforme, abituate a enfatizzare le proprie qualità ben oltre le loro effettive capacità, ed estremamente pessimista nel negare alle persone la capacità di agire seguendo la propria volontà, la diagnosi effettuata dalla studiosa americana è puntuale nel ricostruire i meccanismi con cui le piattaforme digitali estraggono valore dalle nostre azioni, obliterando la percezione dell’apparato tecnico che le rende possibili e mirando alla sua più totale trasparenza e mancanza d’attrito.

Ma se questa mancanza è auspicabile quando dobbiamo interagire con un servizio pubblico o un sistema di emergenza come, per restare nell’attualità, un’app di tracciamento per i contagi da coronavirus, non lo è altrettanto quando usiamo una piattaforma social in cui decliniamo la nostra identità in una rete di relazioni aperta e vastissima. All’interno di Facebook, per esempio, i contatti che creano il nostro grado sociale sono definiti “amici” anche quando sono degli sconosciuti e i profili degli utenti si collegano a vicenda attraverso l’atto di “chiedere amicizia”. Tutti i meccanismi di costruzione di questa rete sono declinati in base a un lessico privato, di prossimità, che costruisce un’impressione di intimità. Ciononostante, nel momento in cui noi ci iscriviamo a Facebook, ogni nostra azione avviene, da subito, in una dimensione di “iper-pubblicità”, cioè visibile a chiunque. È responsabilità individuale dell’utente impostare i livelli di privacy, limitando il numero e la tipologia di contenuti che possono essere visti dalle altre persone in base al tipo di relazione che esse intrattengono tra loro.

Come risolvere l’ambiguità

Questa ambiguità, frutto della ricerca di un’esperienza il più possibile piana, trasparente e priva di attrito, è alla base di equivoci potenzialmente pericolosi. Equivoci che potrebbero essere risolti banalmente invertendo le condizioni, impostando by default il massimo livello di privacy e mettendo perciò l’utente nella condizione di dosare il livello di pubblicità che desidera per i propri status. Farlo significherebbe però introdurre dell’attrito. Soluzioni di questo tipo avrebbero come effetto quello di “far sentire” l’interfaccia, farne percepire gli effetti. Dosare l’attrito significa infatti esercitare un controllo sul ritmo dell’esperienza dell’utente, progettando in quali momenti e per quanto tempo può e deve rallentare le proprie azioni per ragionare su ciò che sta facendo.

Twitter, all’inizio di ottobre, con le elezioni presidenziali alle porte, ha preso alcune scelte che vanno nelle direzione di aggiungere attrito all’esperienza dell’utente, con lo scopo dichiarato di contrastare il diffondersi di disinformazione e fake news sulla piattaforma. Tra queste c’è una modifica a una delle azioni più celebri e distintive della piattaforma: il retweet, ovvero la condivisione di un contenuto di un utente da parte di un secondo utente. Invece di una condivisione automatica e con un solo click, Twitter suggerirà in modo esplicito i suoi utenti di aggiungere un commento al momento del retweet. I designer della piattaforma auspicano che questo permetta agli utenti di guadagnare una pausa, un tempo di “latenza” utile a riflettere su quanto stanno condividendo.

Un’apprezzabile dichiarazione di buona volontà, che non deve farci dimenticare che un rapporto più salubre con le piattaforme non sarà possibile senza una diffusa presa di coscienza di tali meccanismi da parte di noi utenti.

Solo attraverso questa riflessione sarà possibile pretendere tecnologie capaci di avere i nostri interessi come primo obiettivo. È una politica del nostro rapporto con le piattaforme, e ce n’è un estremo bisogno.

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