Nel 2020, primo anno di pandemia, il mercato degli acquisti online è cresciuto globalmente del 25 per cento rispetto al 2019, superando i 4mila miliardi di dollari. A beneficiare di questi numeri non sono però solo Amazon, eBay, Shopify e tutti i principali portali di ecommerce, ma anche un’industria che ha disperatamente bisogno di qualche voce positiva in bilancio: quella dei giornali.

Miracoli dell’affiliate marketing: uno strumento che Amazon utilizza dal lontano 1996 e che permette a influencer, youtuber e non solo di guadagnare una piccola percentuale ogni volta che qualcuno acquista un prodotto partendo dai link ospitati su un profilo Instagram o magari su un blog di moda. Ma soprattutto è uno strumento che sta diventando economicamente rilevante anche per l’editoria.

Leggi e acquista 

Avete presente quei titoli tipo: “Cinque regali originali per Natale”, “Le migliori cuffie wireless” o “Gli orologi da comprare per distinguersi dalla massa”?

Nella maggioranza dei casi, sono frutto dell’affiliate marketing: ogni volta che decidete di acquistare qualcosa partendo dai link ospitati sull’articolo, la testata che li ha pubblicati riceve infatti una percentuale tra l’1 e il 20 per cento (a seconda della piattaforma, della testata, della categoria di beni e altro ancora).

Niente di nuovo e nemmeno niente di immorale: almeno per quanto riguarda le testate giornalistiche, è quasi sempre specificato che il giornale in questione potrebbe «ricevere commissioni per acquisti e-commerce di prodotti» e come il prezzo finale «non subisca alcuna variazione».

A volte queste informazioni si trovano in bella vista all’inizio dell’articolo; altre – con meno trasparenza – in una minuscola riga in fondo alla pagina.

In entrambe le situazioni, rendersi conto di essere di fronte a un articolo basato sull’affiliate marketing non è difficile: se c’è un tasto “acquista” che rimanda a un sito di ecommerce, significa che c’è  un accordo tra la testata e il rivenditore (o la sua agenzia).

È una strategia sempre più diffusa: stando alla rivista specializzata Digiday, oggi il 66 per cento delle testate utilizza questo sistema, in netta crescita rispetto al 57 per cento dell’anno scorso.

Oltre agli articoli ospitati direttamente sui siti delle varie riviste, esistono anche portali specializzati in recensioni e consigli creati (o acquistati) direttamente dai grandi gruppi editoriali.

Il caso più famoso è senza dubbio quello di Wirecutter, acquistato dal New York Times nel 2016 per 30 milioni di dollari e noto per la sua meticolosità e affidabilità. Ci sono poi BuzzFeed Shopping, The Strategist (curato dal New York Magazine), Trusted Reviews e una marea di altri.

Anche in Italia l’affiliate marketing si sta diffondendo, in alcuni casi attraverso portali specializzati gestiti direttamente da note testate giornalistiche: La Scelta Giusta, per esempio, è curato dai giornalisti del Corriere della Sera, mentre Consumismi da quelli de Il Post. C’è poi Consigli.it, il sito di suggerimenti commerciali lanciato dal gruppo GEDI, ma che oggi risulta di proprietà di dell’agenzia di marketing Konverty.

Quanto rende davvero?

Quanto si guadagna grazie a questa forma di marketing? In media, si stima che il 15 per cento degli introiti pubblicitari delle testate sia attribuibile a questa forma di promozione/informazione. Ma è un numero destinato ad aumentare, parallelamente all’abitudine di fare acquisti online iniziando le proprie ricerche da Google per trovare i “migliori smartphone” o qualunque altra cosa. Tra il 2019 e il 2020, per esempio, BuzzFeed ha visto crescere gli introiti legati all’affiliate marketing del 67 per cento.

Per quanto Amazon sia sicuramente il partner più comune, il panorama è vasto: oltre ai già citati eBay e Shopify, ci sono anche portali come Etsy, Rakuten o grandi catene di prodotti di bellezza come Sephora, che spesso lasciano la gestione del programma di affiliazione ad agenzie specializzate (come la tedesca Awin).

In ogni caso, le testate hanno la massima libertà: possono recensire o consigliare quello che vogliono, quando vogliono e senza alcun vincolo. Una libertà che permette anche di cercare strategie alternative.

Vendere tutto?

Negli Stati Uniti, la rivista Vice ha da poco varato Rec Room: un magazine dedicato ad acquisti particolari e argomenti tabù. Un articolo del 24 marzo 2021 – intitolato “Adori l’erba ma detesti prenderti male?” – conteneva il link a un’azienda che vende CBD, la “marjuana light” priva del principio psicotropo del THC (che ad alcune persone può effettivamente provocare sensazioni di disagio). L’articolo ha generato oltre 600 acquisti: il doppio delle aspettative. È un esempio delle variegate potenzialità di questo strumento, già oggi responsabile del 16 per cento di tutti gli ordini online fatti sul mercato nordamericano e che a livello globale garantisce un fatturato da 12 miliardi di dollari (principalmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania).

Messa così, sembra una situazione da cui escono tutti vincitori: i grandi portali di acquisti online guadagnano consumatori e le riviste aumentano gli introiti. In verità, i rovesci della medaglia non mancano: nell’aprile 2020, nel bel mezzo del lockdown, Amazon ha improvvisamente tagliato i compensi.

Le commissioni sugli oggetti di arredamento sono per esempio scese dall’otto al tre percento e quelle sui prodotti alimentari dal tre fino all’uno percento.

Un cambio repentino che è stato aspramento criticato – visto che nel frattempo le azioni di Amazon stavano schizzando alle stelle – e che ha ricordato a tutti chi ha l’ultima parola in questo tipo di partnership.

Il patto di fiducia

L’affiliate marketing potrebbe porre qualche dubbio anche ai lettori: ci si può fidare di recensioni che hanno anche l’obiettivo di incentivare all’acquisto? «I lettori si accorgono se sei onesto e indipendente o se invece stai solo cercando di spingerli a comprare», ha spiegato sempre a Digiday la ricercatrice della Columbia University Susan McGregor. Eppure, anche in un mercato abituato alla trasparenza giornalistica come gli Stati Uniti, non mancano i dubbi: «Da giornalista voglio pubblicare recensioni oggettive, ma questo sistema incentiva la positività nei confronti dei rivenditori, nel tentativo di oliare la ruota delle vendite», ha raccontato Stephen Regenold di Lola Digital Media (che pubblica vari siti di recensioni). «Devi pensare come un commerciante», sottolinea invece la responsabile di BuzzFeed Nilla Ali.

Ma è possibile trattare ciò che si presenta come informazione nello stesso modo in cui un commerciante cerca di vendere (per quanto onestamente) la merce del suo negozio?

Arrotondare con il cambio merce

Non sono gli unici dubbi che aleggiano, visto che – soprattutto nel settore della tecnologia – i giornalisti che recensiscono i prodotti a volte li ricevono in regalo: «Indipendentemente dall’affiliate marketing, nell’ambiente del giornalismo tecnologico italiano si sa che c’è chi si offre di fare recensioni solo se riceve in cambio il prodotto», mi racconta un giornalista che ha lavorato a lungo in questo settore.

«Succede principalmente nei blog o nelle piccole testate di settore. Nei grossi gruppi editoriali, più che dipendere dal singolo giornalista, questo tipo di storture può semmai essere legato agli accordi con gli inserzionisti tradizionali».

Quello che nel mondo degli influencer è chiamato “cambio-merce” (tu mi regali il prodotto e io ne parlo) in alcuni casi alimenta anche un piccolo mercato secondario: «Gli smartphone, regalati a chi faceva recensioni, qualche giorno dopo finivano sui siti di seconda mano», prosegue il giornalista. «Anche nel mondo della moda c’è un sistema simile e non escludo che qualcuno abbia anche goduto di una sorta di doppio stipendio».

Dal momento che alcuni giornalisti possono avere tutto l’interesse ad assicurarsi che questo giro di regalie non si interrompa, magari in seguito a una stroncatura, quanto ci si può fidare delle recensioni? «Certo, stroncare un prodotto non è facile: si tende prima a parlare con l’ufficio stampa dell’azienda e a spiegare la situazione, per evitare di rovinare una relazione che spesso, con gli anni, diventa anche personale e di fiducia. Per quanto riguarda l’attendibilità, può essere che novelli influencer e giornalisti di piccole realtà specializzate tendano a parlare bene dei prodotti che ricevono in regalo. Se invece si parla di riviste importanti ormai le cose sono abbastanza cambiate e c’è un controllo superiore».

Un po’ di sano scetticismo – alla luce delle possibili storture e visto che l’obiettivo non è più solo informare, ma anche vendere – non può fare male.

L’impressione però è che nelle principali realtà editoriali, non solo del mondo anglosassone, si tenda ormai a privilegiare la trasparenza e ad avere un rapporto chiaro con il lettore/consumatore. Almeno per quanto riguarda l’affiliate marketing.


 

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