Sono i primi mesi del 2011 quando Dmitry Buterin, scienziato informatico russo che vive da tempo in Canada, racconta al figlio Vitalik della bizzarra nuova moneta digitale di cui ha appena sentito parlare: i bitcoin. All’epoca Vitalik ha 17 anni e una spiccata predisposizione per la matematica, la programmazione e l’economia: qualità che gli consentono di apprezzare subito le caratteristiche dei bitcoin e della blockchain, il registro anonimo e distribuito tra migliaia di diversi computer che permette a questa moneta digitale di essere scambiata direttamente dagli utenti, aggirando qualunque autorità centrale. Vitalik inizia a frequentare i forum di appassionati e, pochi mesi dopo, a scrivere per un sito specializzato articoli pagati cinque bitcoin l’uno (all’epoca circa 4 dollari, oggi sarebbero oltre 250mila). Attorno al 2013, l’interesse generale verso i bitcoin cresce e con esso il valore delle monete digitali accumulate da Vitalik Buterin, che dopo aver fondato la rivista (ancora attiva) Bitcoin Magazine decide di lasciare l’università e di iniziare a girare il mondo per incontrare, finalmente di persona, altri esperti del settore, facendosi coinvolgere nei più svariati progetti.

C’è però qualcosa che non gli torna: perché, come avviene con i bitcoin, impiegare la blockchain solo per la creazione di una moneta digitale quando questa tecnologia, secondo Buterin, può fare molto di più? Inizia così a prendere forma ciò che verrà presentato al mondo nel settembre 2014: Ethereum, una piattaforma basata anch’essa su blockchain e alimentata da una criptovaluta (gli ether), ma sulla quale qualunque programmatore può sviluppare il proprio software. Il cuore della creazione di Buterin sono gli smart contracts: contratti che si eseguono automaticamente nel momento in cui le condizioni sottoscritte dalle parti vengono soddisfatte. Per esempio, è possibile scrivere un programma che invii automaticamente a un utente una determinata somma (in ether) non appena il sito sportivo di riferimento segnala chi ha vinto la partita su cui si era scommesso o che permetta di firmare un contratto che farà scattare automaticamente il pagamento alla consegna del lavoro concordato.

Nei suoi sei anni di vita, Ethereum – che oggi è la seconda blockchain per valore di mercato, dopo quella dei bitcoin – è stata sperimentata come piattaforma per il voto online, per siti di scommesse, per versioni decentralizzate di Spotify, per creare carte d’identità digitali e molto altro ancora. Il primo vero successo, però, arriva nel 2017 con il gioco dei CryptoKitties, tramite il quale vengono acquistati, allevati e rivenduti dei gatti virtuali che diventano rapidamente degli ambìti oggetti da collezione. La popolarità è tale che alcuni di questi cuccioli vengono scambiati per centinaia di migliaia di dollari e che il gioco delle Kitties impiega da solo il 95 per cento della capacità di Ethereum, causando anche notevoli rallentamenti.

I token

È la prima occasione in cui si sente parlare degli Nft, i non-fungible token che oggi sono al centro dell’ultima moda che viaggia (principalmente) su Ethereum: l’acquisto di opere d’arte e di ogni tipo di oggetti digitali collezionabili. Dal file digitale che raccoglie svariate opere dell’artista Beeple, che l’11 di marzo è stato battuto all’asta da Christie’s per 69 milioni di dollari, al video della schiacciata di LeBron James venduto per oltre 200mila dollari, fino al primo tweet del fondatore di Twitter, Jack Dorsey, ceduto per 2,9 milioni di dollari. Ma come si può acquistare e possedere un tweet che chiunque può trovare online, un video disponibile anche su YouTube o un’opera d’arte già pubblicata sul sito dell’artista? È proprio questa la funzione degli Nft, una sorta di “gettone digitale” legato univocamente a un oggetto virtuale, salvato sulla blockchain e il cui possesso dimostra inequivocabilmente di essere il proprietario dell’originale di un determinato bene, indipendentemente da quante copie ne circolino in rete.

Facendo un parallelo con il mondo fisico, è un po’ come possedere una figurina autografata: nonostante la figurina in sé sia uguale a migliaia di altre in circolazione, è l’autografo che la caratterizza e le dà valore. Ed è sempre l’autografo che la rende “non fungibile”, perché il suo valore dipende da quella particolarità e non è quindi scambiabile alla pari con un’altra copia della stessa figurina. Grazie agli Nft, che rappresentano una sorta di autografo digitale, è così possibile trasferire il concetto di scarsità e proprietà in un mondo, come quello digitale, caratterizzato dall’infinita riproducibilità.

Finanza decentralizzata

Il successo è stato travolgente: dall’ottobre scorso a oggi, il totale delle compravendite legate ai soli video della Nba, scambiati sulla piattaforma ufficiale Top Shot, ha superato quota 400 milioni di dollari. Il valore economico di questi brevi clip dedicati al basket statunitense rappresenta da solo oltre un terzo di tutti gli scambi effettuati sui principali siti di Nft, specializzati in arte (come Rarible), in oggetti collezionabili (Cryptopunk) o in giochi di carte digitali (Sorare). La bolla speculativa degli Nft ha però messo in ombra il successo di un’altra recente innovazione basata principalmente su Ethereum: la DeFi, decentralized finance.

Le piattaforme di DeFi si occupano di scommesse, crowdfunding, prestiti, mutui e molto altro ancora, senza bisogno di coinvolgere alcun intermediario e affidandosi agli smartcontract per avere la certezza che gli accordi vengano rispettati. Per il momento, le applicazioni di maggior successo sono nel campo dei prestiti: una società come Compound (1,9 miliardi di valore di mercato) consente agli utenti di prestare criptovalute a una pluralità di soggetti in base alla propensione al rischio, in un meccanismo in parte simile al social lending. Augur (400 milioni) è invece una piattaforma che permette a ogni utente di lanciare scommesse di qualunque tipo basate su smart contract.

Nonostante la DeFi rappresenti una forma di far west finanziario privo di regolamentazione, la quantità di denaro depositato sulle varie piattaforme di finanza decentralizzata è aumentata esponenzialmente: secondo il portale DeFi Pulse, si è passati dai 630 milioni di dollari del marzo 2020 ai 44 miliardi di oggi. Questo successo sta però mettendo a rischio la tenuta di Ethereum: ancora oggi, la blockchain di Vitalik Buterin è in grado di elaborare non più di venti transazioni al secondo (contro le 24mila di un circuito come Visa) e rischia di subire pesanti rallentamenti ogni volta che una sua applicazione ha particolare diffusione.

Blockchain sostenibile

Un altro problema è rappresentato dal mining, lo stesso sistema che regola i bitcoin e che permette ai computer collegati alla blockchain (in gergo detti “nodi”) di ricevere criptovalute ogni volta che, risolvendo un complicatissimo puzzle matematico (la cosiddetta “proof-of-work”), autorizzano una transazione. Un’operazione per la quale vengono sfruttati computer sempre più potenti, collegati tra loro in vere e proprie fabbriche specializzate e che consumano una spaventosa quantità di energia. Secondo alcune stime, creare un singolo Nft richiede 8,7 megawatt-ora di elettricità, più del doppio di quanto consuma una famiglia italiana di quattro componenti in un anno. Un sistema che ha fatto scappare parecchi artisti preoccupati dall’impatto ambientale (e per la loro immagine) e che Vitalik Buterin sta cercando di risolvere passando a un nuovo modello, battezzato “proof-of-stake”. In questo sistema, i nodi sono rimpiazzati dai “validatori”, che per partecipare non devono risolvere puzzle matematici ma semplicemente depositare una somma di denaro come cauzione (al momento pari a un minimo di 32 ether, 55mila dollari). Più soldi si depositano, maggiori sono le possibilità di essere selezionati tra i validatori, che devono confermare la validità della transazione che sta avvenendo sulla blockchain e ottengono come ricompensa altri ether. La transazione è valida se approvata da due terzi dei validatori selezionati, mentre chi viene scoperto a truffare il sistema perde una parte o tutti i soldi depositati.

La proof-of-stake alla base del nuovo Ethereum è già attiva in versione sperimentale, ma per completare il processo ci vorranno ancora mesi, se non anni. Quando però il lavoro sarà finito, si stima che la creatura di Vitalik Buterin consumerà il 99 per cento di energia in meno e potrà gestire fino a 10mila transazioni al secondo. A quel punto, i bitcoin potrebbero essere costretti a seguire la stessa strada: se Ethereum ottenesse il marchio di “blockchain sostenibile” e i bitcoin quello di “criptovaluta inquinante”, il primato della più antica moneta digitale – che oggi ha un valore di mercato che è cinque volte quello di Ethereum – potrebbe iniziare a traballare.

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